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Marco Pantani moriva vent’anni fa, l’ultima curva del Pirata

Vent’anni fa il ciclista che in salita andava più forte «per abbreviare la mia l’agonia», l’uomo fragile e il campione tenace allo stesso tempo antico e moderno, l’idolo di un intero paese che aveva conquistato cuori e sguardi, l’eroe tragico che era scivolato all’inferno; tutti insieme entrarono nelle case degli italiani in due righe battute dall’Ansa mentre il giorno di San Valentino, il 14 febbraio 2004, stava declinando: «È morto Marco Pantani».

Se ne andava il Pirata, aveva appena compiuto 34 anni. Era stato tutto, lo era stato molto in fretta. Aveva conosciuto il trionfo e la caduta, la gloria e la polvere, la popolarità e la solitudine. Dalla polvere alle stelle. Troppo amato, perciò molto invidiato. Pantani che nel 1998, tornato a correre dopo un paio di spaventosi incidenti, centrava la storica doppietta – Giro d’Italia e Tour de France – e si confermava il più grande scalatore della storia recente del ciclismo. Pantani monumento sportivo italiano, suo malgrado; sulla scia dei grandissimi di questa disciplina, da Coppi a Bartali, fino a Gimondi.

Pantani che non assomigliava a nessuno. Pantani con la bandana, il viso sofferente, il corpo piegato dai tanti infortuni, i muscoli di seta, il sorriso di chi non riesce a nascondere la timidezza. Pantani che nel 1999 a Madonna di Campiglio, era il 5 giugno, mancavano due tappe di un Giro d’Italia che aveva dominato, risultava positivo al controllo antidoping. Gli veniva riscontrato un valore di ematocrito di poco superiore al limite consentito: lui si difendeva, attorno al campione tirava aria di complotto, tra veleni e rancori si consumava la fine di una carriera rapidissima, eppure straordinaria e capace di segnare un’intera epoca.

Il resto era un lento procedere verso il buio, nell’odissea avvelenata del circo mediatico che lo sdruciva, nei pensieri e nell’anima. La depressione compagna dei giorni, la fatica di vivere, l’incapacità di ritrovare il proprio posto nel mondo, le amicizie sbandate. Fino al triste epilogo, in un anonimo residence di Rimini, nella solitudine slabbrata di chi ha perso la bussola del proprio percorso. Sono passati vent’anni da quel 14 febbraio 2004, eppure se ne discute da tempo e ad intervalli regolari si riapre il dibattito sulla sua morte accompagnata da sospetti e congetture. Chiedono giustizia i genitori, gli amici, i tifosi. Le inchieste raccontano una verità che dice di una morte provocata da un mix di farmaci antidepressivi e cocaina. E per la terza volta in questi vent’anni – proprio in questi giorni – gli inquirenti sono giunti alla stessa conclusione: non fu omicidio, quello di Pantani. La terza indagine della Procura di Rimini sulla scomparsa del campione di Cesenatico verrà dunque archiviata. Il mistero, se mai c’è stato, è il più insondabile: quello di un uomo solo.


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