Cultura

Machine Head – Unatoned | Indie For Bunnies

È un ritorno deludente quello dei Machine Head, come al solito altalenanti e incapaci di seguire con coerenza un percorso chiaro e definito. Dopo aver modellato il verbo groove metal con il classico “Burn My Eyes” ed essersi persi nel tunnel nu metal tra la fine degli anni ’90 e l’inizio dei 2000, la band di Robb Flynn era tornata a menare pesante con tre ottimi dischi: “Through the Ashes of Empires” (2003), “The Blackening” (2007) e “Unto the Locust” (2011). Poi, però, è arrivato lo scivolone imperdonabile: “Catharsis” (2018), un’accozzaglia dalla lunghezza punitiva (74 minuti!).

Tilly antoine, CC BY-SA 4.0 , via Wikimedia Commons

Oggi i Machine Head tornano con “Unatoned”, il loro album più breve di sempre (41 minuti, una durata più che accettabile), che tuttavia si fa ascoltare con una certa fatica, essendo quasi totalmente privo di brani realmente interessanti e ispirati. Robb Flynn procede col pilota automatico, firmando una serie di pezzi nel tradizionale stile Machine Head – riffoni ignorantissimi alternati a ritornelli molto orecchiabili – ma fin troppo anonimi e generici.

Quasi tutti i brani soffrono di un’eccessiva elaborazione in studio, tra orchestrazioni esagerate e un uso marcato dell’autotune sulla voce di Flynn. A risentirne sono la genuinità e la naturalezza di un album fin troppo sintetico e artificiale per i canoni del groove metal, che dovrebbe invece essere pura aggressività.

Non mancano certo i pezzi degni di nota: “Landscape of Thorns”, “These Scars Won’t Define Us” e “Bleeding Me Dry” si fanno apprezzare nei loro passaggi più heavy, mentre “Scorn” sorprende risultando una buona ballad. A prevalere, tuttavia, sono i momenti di stanca, nei quali Robb Flynn torna a esplorare i suoi non felicissimi trascorsi nu metal o, ancor peggio, si cimenta con il pessimo metal melodico/radio-friendly di “Bonescraper”. Quest’ultimo brano ha sì qualche hook efficace (vedi il riff principale, che sembra rubato ai Korn di “Here to Stay”), ma alla fine fa pensare a una sorta di incrocio spaventoso tra i Five Finger Death Punch e gli Imagine Dragons (entrambi band terrificanti, a mio modesto parere).

Se non altro, i Machine Head si confermano ancora una volta campioni dell’imprevedibilità. Peccato che questa volta sia andata piuttosto male.


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