Cultura

Lo Shoegaze: da insulto a rinascita del rumore interiore

Slowdive. Credit: Greg Neate, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons

Articolo ispirato dalle opere di William Turner

La stampa musicale britannica ha sempre avuto una certa propensione per il gioco al massacro: alimentare rivalità, creare gerarchie arbitrarie, costruire narrazioni binarie tra ciò che è cool e ciò che, per qualche ragione, spesso solamente ideologica, non lo è. Nei primi anni Novanta, questa tendenza si fece particolarmente virulenta. In piena esplosione del brit-pop e della sua caricatura mediatica – la celebre “Cool Britannia” – ogni forma sonora che non rispondesse ai canoni estetici, sociali e spettacolari del momento venne, sistematicamente, ridicolizzata, marginalizzata, persino aggredita.

In quel contesto nacque il termine “shoegaze”. Una parola sgraziata, coniata non per definire un genere, ma per liquidarlo. Con una punta di perfidia snob, la stampa musicale d’Albione utilizzò quell’etichetta per deridere quelle band che, durante i concerti, suonavano con lo sguardo fisso a terra, verso i propri pedali d’effetto, più introspettive, che spettacolari; più dedite alla ricerca e alla sperimentazione sonora, che all’intrattenimento. Erano, secondo i critici musicali del tempo, l’antitesi della rinascita pop britannica. Band “brutte”, inerti, incapaci di infiammare le folle e le classifiche. Ma quello che la stampa non capì – o fece finta di non capire – è che dietro quei muri di chitarre distorte, quelle onde di riverbero e quelle posture introverse, si celava una delle correnti più poetiche, radicali e spirituali della musica alternativa contemporanea.

Come ben ricorda Ryan Pinkard, nel suo prezioso libro “Shoegaze”, quello stigma non bastò a fermare il movimento. Esso, infatti, scomparve dai voraci radar massificati per un po’, certo, ricacciato nei sobborghi e nelle periferie underground dell’impero musicale, ma non si spense. Anzi, come certi fiumi carsici, esso continuò a scorrere sotto la superficie, alimentando una sensibilità sonora fatta di stratificazioni, di immersioni, di trance psichedeliche e di carezze elettriche. Era una musica che non cercava l’impatto immediato, ma si insinuava piano, come un sogno ad occhi aperti, come un abisso di malinconia e di meraviglia. I riferimenti non mancavano. I Velvet Underground avevano già indicato la via. Il kraut-rock tedesco aveva insegnato a dilatare il tempo. L’elettronica ambientale e il dream-pop di Cocteau Twins e This Mortal Coil avevano tracciato un immaginario evanescente, ombroso e struggente. Su quelle basi, band come i My Bloody Valentine, gli Slowdive, gli Spacemen 3, i Lush o i Ride costruirono, a loro volta, un linguaggio nuovo, in cui la distorsione non era aggressione fine a sé stessa, ma vivida contemplazione; dove il rumore era una forma di preghiera laica; dove la melodia si dissolveva nella nebbia, come un ricordo che svanisce prima di poterlo afferrare.

Ma gli imperi – musicali o geopolitici che siano – hanno sempre bisogno di un nemico o di un capro espiatorio da marginalizzare. Così lo shoegaze fu prima deriso, poi sepolto, travolto dall’ondata mediatica del brit-pop che – con le sue fanfare da pub, con il suo machismo post-moderno e con il suo nazionalismo pop – spazzò via ogni traccia di vulnerabilità e di sensibilità. La rinascita dell’impero britannico non ammetteva fragilità. Eppure, non tutto si può sopprimere con una recensione negativa, con una battuta di cattivo gusto o fingendo di dimenticare.

Lo shoegaze è sopravvissuto. Ha resistito. È tornato. A cicli irregolari, certo, ma sempre più potente, contaminato ed aggiornato. E ogni volta che si parla di lui, ci si accorge di quanto fosse avanti, di quanto le sue intuizioni siano, ovviamente, ancora vive. Persino Pitchfork – che, negli anni, ha partecipato alla riabilitazione del genere – ha dedicato uno dei suoi articoli più longevi alla celebrazione dei 50 dischi fondamentali dello shoegaze, diventato, nel tempo, un riferimento canonico per appassionati vecchi e nuovi. Ma quello che, spesso, si dimentica – e che sarebbe il caso di aggiornare – è che, oggi, lo shoegaze è diventato un linguaggio globale. Non è più (solo) una faccenda anglo-americana. È diventato un alfabeto emotivo trans-nazionale, capace di parlare da ogni angolo del pianeta. Dall’America Latina all’Asia, dall’Europa all’Oceania, artisti e band raccolgono, infatti, l’eredità del suono sommerso e la reinterpretano con nuovi strumenti, nuovi codici culturali, nuove esperienze.

Il rumore interiore non conosce confini.

Un rumore che rifiuta la centralità dell’ego e il protagonismo tipico del rock, un rumore che si esprime, spesso, attraverso voci sommesse, lontane, quasi anonime; il sé, infatti, non è più l’eroe di queste narrazioni, ma una presenza eterea che si dissolve nelle trame sonore, come se l’identità individuale fosse solo uno dei tanti strati da attraversare per arrivare a un’idea più universale. Ed anche l’estetica shoegaze parla, in fondo, la lingua del non-detto, tra fotografie sfocate, luci sovraesposte e soggetti poco riconoscibili, nei quali l’occhio umano è invitato ad immergersi, piuttosto che a riconoscere e a distinguere. Un po’ come nei dipinti dei paesaggi onirici e sfumati di William Turner, mentre autori come Murakami Haruki e Virginia Woolf contribuiscono a dare un riferimento letterario al suo senso di disorientamento, ai suoi versi fluidi, interrotti e senza punteggiatura, all’alienazione emotiva e alla ambiguità tra il sogno e la realtà. Vaghiamo, infatti, in una dimensione che richiama alla mente film come “Eraserhead” di David Lynch o “Lost In Translation” di Sofia Coppola o “Melancholia” di Lars von Trier: solitudini metropolitane, bellezze sospese e spezzate, inquietudine come forma naturale di comunicazione e di espressione del nostro subconscio.


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