Cultura

Live Aid, 40 anni dopo: il giorno in cui la musica decise (si illuse?) di cambiare il mondo

Tra un paio di giorni ricorre il 40° anniversario del LIve Aid, un maxiconcerto che ha lasciato il segno nella storia, purtroppo però solo in quella della musica.

Era il 13 luglio 1985 e una delle più grandi sfide collettive della musica prese forma sotto un sole cocente e davanti a due miliardi di spettatori. Si chiamava Live Aid ed era il primo vero concerto globale, una maratona senza precedenti trasmessa in mondovisione, da Londra a Philadelphia, pensata per raccogliere fondi in aiuto delle popolazioni colpite dalla carestia in Etiopia.

Oggi, a quarant’anni di distanza, il ricordo di quell’impresa oscilla tra leggenda e disincanto, tra la forza del gesto e le sue inevitabili ombre.

La scintilla: da un singolo a una rivoluzione

Tutto cominciò con una trasmissione televisiva. Nell’autunno del 1984, le immagini trasmesse dalla BBC su quanto stava accadendo in Etiopia – bambini scheletrici, madri disperate, ospedali senza medicine – colpirono duramente l’opinione pubblica britannica.

Tra chi guardava c’era anche Bob Geldof, che decise di fare qualcosa di concreto. La prima mossa fu telefonare a Midge Ure degli Ultravox per scrivere insieme “Do They Know It’s Christmas?“, un singolo natalizio benefico che riunì le voci più note del pop britannico sotto il nome collettivo di Band Aid.

Il brano divenne un successo clamoroso e innescò un effetto domino: dall’altra parte dell’oceano, Quincy Jones e Lionel Richie guidarono la versione americana con “We Are The World“.

Ma Geldof aveva già in mente qualcosa di più ambizioso: un evento globale in diretta televisiva che coinvolgesse tutti i grandi della musica internazionale. Così nacque Live Aid.

Due stadi, due continenti, un unico messaggio

La macchina organizzativa si mise in moto tra promesse reciproche, bluff strategici e logistica al limite del possibile. “Bob diceva a Elton John che c’erano già i Queen e Bowie, e viceversa“, ha raccontato Andy Zweck, uno dei responsabili della produzione.
Alla fine riuscirono a mettere insieme 70 artisti, distribuendoli tra il Wembley Stadium di Londra e il John F. Kennedy Stadium di Philadelphia, collegati da 16 satelliti per oltre 16 ore di musica.

Alle 12:00 (ora di Londra) del 13 luglio 1985, gli Status Quo aprirono le danze con Rockin’ All Over the World. Da quel momento in poi fu un crescendo continuo, tra hit, sorprese, problemi tecnici e momenti da storia della musica.

Da una parte David Bowie, Queen, Elton John, U2, dall’altra Bob Dylan, Madonna, Led Zeppelin, Tina Turner, Eric Clapton.
E poi c’era Phil Collins, che si esibì a Londra, volò sul Concorde fino a Philadelphia e salì anche lì sul palco, realizzando una doppia performance in un solo giorno.

Queen: il concerto dentro il concerto

Alle 18:41 ora locale, i Queen salirono sul palco di Wembley. In 21 minuti Freddie Mercury trasformò uno stadio e milioni di spettatori in un unico coro. Quella performance, che si apriva con una versione accorciata di Bohemian Rhapsody e si chiudeva con We Are the Champions, è ancora oggi considerata una delle più potenti della storia del rock.

Il momento in cui Mercury, a cappella, lancia il celebre “Aaaaay-o”, passato alla storia come The Note Heard Round the World, resta una delle icone visive e sonore di Live Aid.

Ma il loro trionfo non fu l’unico. Gli U2, con un’interpretazione estesa di Bad, si imposero come nuova forza internazionale.
Durante la canzone, Bono saltò giù dal palco per aiutare il soccorso una fan che stava per essere schiacciata dalla folla, improvvisando un lento con lei tra le lacrime del pubblico.

Gli intoppi, le stecche, i momenti surreali

Se oggi un evento del genere si affiderebbe a tecnologie avanzate, nel 1985 i tecnici lavoravano con attrezzature analogiche e telecamere ingombranti. I problemi non mancarono: Paul McCartney iniziò Let It Be col microfono spento; Phil Collins prese una stecca notevole su Against All Odds, ma soprattutto ci fu una disastrosa reunion dei Led Zeppelin, tanto che Jimmy Page ne vietò la pubblicazione ufficiale.

Simon Le Bon, con i Duran Duran, regalò al mondo il Bum Note Heard Round the World e Bob Dylan, un po’ alticcio, con Ron Wood e Keith Richards, suonò Blowin’ in the Wind con chitarre scordate, andamento altalenante e corde rotte.

Siamo a metà anni ’80 e bisogna dire che alcune stelle del firmamento anni ’60 e ’70 non erano propriamente in una fase di carriera idilliaca, un po’ per la scarsa capacità di rinnovarsi, un po’ per problemi di abusi in un’età non più giovanile. Tutto questo venne fuori durante il Live Aid.
Eppure anche gli errori contribuirono a rendere il concerto autentico, lontano dalla patina delle esibizioni preconfezionate.

“Fuck the address!”: l’urlo che fece esplodere le donazioni

Dopo quasi sette ore di concerto, l’atmosfera allo stadio di Wembley era elettrica, ma le donazioni non stavano ancora raggiungendo le aspettative.
In quel momento, Bob Geldof intervenne in una diretta della BBC destinata a restare nella storia. Il presentatore David Hepworth stava leggendo con calma gli indirizzi postali a cui inviare i contributi, quando Geldof lo interruppe bruscamente con un’esclamazione che rimbalzò in tutto il Regno Unito:Fuck the address, let’s get the [phone] numbers!.

L’espressione, complice l’accento irlandese di Geldof che trasformava “fuck” in “fock”, fu interpretata da molti come Give us your fucking money!, frase entrata nel mito popolare ma mai realmente pronunciata, come lo stesso Geldof ha più volte chiarito.
Tuttavia, l’effetto fu immediato: le linee telefoniche vennero prese d’assalto e le donazioni raggiunsero picchi di 300 sterline al secondo.

Alla fine si raccolsero circa 150 milioni di dollari. La cifra fu enorme, anche se nel tempo si sollevarono critiche sulla reale destinazione dei fondi: alcune ONG e inchieste giornalistiche denunciarono presunti utilizzi impropri da parte del regime etiope.

Tuttavia, nessuna prova definitiva confermò la deviazione sistematica delle risorse, e secondo l’ambasciatore britannico dell’epoca, Brian Barder, “nulla del genere è avvenuto“.

Un’eredità complessa

Live Aid lasciò un segno indelebile. Molti musicisti ne uscirono trasformati, altri – come Geldof – pagarono il prezzo dell’esposizione, sacrificando la propria carriera artistica per una causa più grande.

Alcuni, come Adam Ant, definirono la propria partecipazione “il più grande errore della carriera“. Ma nel bilancio globale, l’impatto culturale fu straordinario: la beneficenza diventò centrale nel dibattito politico, l’industria musicale mostrò di poter andare oltre se stessa e la coscienza collettiva fu scossa.

Senza Live Aid, probabilmente, non ci sarebbero stati concerti come Farm Aid, Live 8 o le grandi mobilitazioni artistiche per cause umanitarie degli anni successivi.

Oggi: nostalgia, imitazioni e un’eredità ingombrante

A 40 anni di distanza, ci si interroga se un evento simile sarebbe ancora possibile. In un mondo dove la musica si consuma velocemente a botte di singoli e playlist, dove la diretta globale è la normalità, e dove la solidarietà ha perso la sua aura per diventare spesso strumento di marketing, Live Aid resta una pagina memorabile ma forse irripetibile.

Per non parlare della mancanza di fiducia generale negli organi di informazione e nelle attività benefiche, dei leciti dubbi ma anche del complottismo sempre dietro l’angolo, di una generale anestetizzazione dei popoli che una volta venivano definiti “occidentali” verso le grandi tragedie del mondo, situazione aggravata dal crescente isolazionismo, nazionale ma anche personale, quest’ultimo paradossalmente dopato da ciò che definiamo “social”.

Ma forse il vero lascito di quel giorno non sono le canzoni, né le polemiche, né le cifre raccolte. È la sensazione, ancora palpabile, che per un momento il mondo si sia fermato per ascoltare, insieme.




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