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L’Italiana in Algeri all’Opera di Roma: un meritato successo

Fino al 12 giugno sarà possibile vedere al Teatro dell’Opera di Roma una splendida versione de L’Italiana in Algeri di Gioachino Rossini, una delle opere più irresistibilmente brillanti della storia della musica.

Tantissimi i temi che emergono urgentemente attuali nella dinamica del “dramma giocoso per musica” su libretto di Angelo Anelli: dietro la parodia apparentemente innocua degli stereotipi, c’è coraggioso orgoglio patriottico, femminismo intelligente ante litteram, ma soprattutto compassionevole distacco dalle passioni, uno sguardo addolcito da un supremo sorriso sub specie aeternitatis che contempla il trambusto dolente e confuso delle vicende umane.

Un paradosso meraviglioso e illuminante: bellissimo pensare come Arthur Schopenhauer amasse Rossini (“parla il proprio linguaggio in maniera così chiara e pura che non ha affatto bisogno di parole e produce il suo effetto anche se viene eseguita in modo esclusivamente strumentale”), in un gioco speculare tra archetipi complementari: da un lato il genio dell’opera buffa e dei vivacissimi “crescendo”, afflitto proverbialmente da patologia depressivo-malinconica, dall’altro il più pessimista dei filosofi fautore del distacco dalla volontà, dedito in maniera impenitente al libertinaggio fino all’età avanzata.

La follia comica rossiniana, del resto, sembra la più bella risposta estetica al concetto schopenhaueriano della noluntas (rifiuto della cieca e ottusa Volontà di vita).

In questo senso, torno ancora a una volta a Carmelo Bene, amante “filosofico” di Rossini, in particolare proprio de L’Italiana in Algeri, ancor di più nel dettaglio del memorabile, travolgente, geniale finale del primo atto. Nella furia iconoclasta della lunga intervista rilasciata a Sandro Veronesi, ribattezzata CB versus Cinema, il provocatorio de-pensatore salentino evoca proprio quel momento “la grazia del melodramma, la sua follia”; altrove, in Vita di Carmelo Bene, ribadirà: “Rossini nella testa ha un campanello (melologo, duetto, concertato e coro). Che tinnisce impazzito dentro il vuoto dei non più ruoli in confusione intestimoniabile. Da per sempre inimitato”.

A riguardo, scrive precisamente Emanuele Senici nel sempre curato libretto di scena: “Rossini escogita varie soluzioni compositive per portare avanti la ripetizione che non risulti noioso o strutturalmente debole (…) il risultato è una perdita di orientamento sia tonale che melodico, come se i personaggi, quasi ubriacati dalla ripetizione ossessiva delle stesse frasi, continuassero a imboccare strade che li portano in luoghi sconosciuti (…) i personaggi in scena dichiarano che non capiscono più niente, che non sono più in grado di comprendere la realtà che li circonda, che non riescono a decifrare la loro condizione, che sono confusi e attoniti, che niente ha più senso”.

La prima del 5 giugno al Costanzi ha riscosso un meritato successo: se da un lato si andava sul sicuro (lo spettacolo era stato già apprezzato nella Capitale più di vent’anni fa), dall’altro bisognava mostrarsi all’altezza delle precedenti versioni. Si riprende, infatti, il celebrato allestimento, originariamente presentato al Teatro Massimo di Palermo un quarto di secolo fa, con le bellissime scene di Emanuele Luzzati e la regia di Maurizio Scaparro, qui ripresa dal suo storico collaboratore Orlando Forioso, con i costumi, molto belli, di Santuzza Calì e le luci di Vinicio Cheli.

Con gusto perfettamente rossiniano, la serata si è sviluppata in maniera rocambolesca e imprevedibile: Paolo Bordogna, convincente nel physique du rôle aderente al ruolo del bey Mustafà, è colpito da improvvisa afonia verso la fine del primo atto (auguriamo pronta guarigione!): verrà sostituito più che degnamente, con tempismo provvidenziale, da Adolfo Corrado, il quale entra in scena ancora con gli occhiali da vista ma, in poche scene, si dimostra perfettamente a suo agio in un ruolo arduo e istrionico. Applausi meritatissimi anche, e soprattutto, per Chiara Amarù, Isabella spigliata quanto sensuale, in grado di affrontare le non facili sfide poste a un mezzosoprano dal beffardo genio di Pesaro. Bravi quanto affiatati Dave Monaco, nel ruolo di Lindoro, e Misha Kiria, divertentissimo nel ruolo del goffo rivale Taddeo. Consueti elogi per il coro diretto dal maestro Ciro Visco.

La direzione di Sesto Quatrini ha rivelato sicurezza e versatilità, soprattutto nell’affrontare con eleganza, durante l’emozionante debutto romano, l’imprevisto incidente. L’opera è una vetta, lo spettacolo ne è degno.

Photo credits: Fabrizio Sansoni – teatro dell’Opera di Roma


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