L’Iran prepara la sua risposta. Hormuz, basi Usa e il fattore proxy: cosa può accadere
L’attacco congiunto di Stati Uniti e Israele contro i principali impianti nucleari iraniani – Fordow, Natanz e Isfahan – segna un punto di rottura nella lunga crisi mediorientale. L’amministrazione Trump si prepara a potenziali ritorsioni da parte dell’Iran e le prossime 48 ore saranno particolarmente preoccupanti.
Mentre Teheran cerca di minimizzare pubblicamente i danni subiti, ridimensionando l’impatto sugli impianti e negando rischi di contaminazione radiologica, è chiaro che la Repubblica Islamica sta ricalibrando la propria postura strategica. Chiedendo una condanna internazionale degli attacchi americani all’Iran, il ministro degli Esteri iraniano Abbas Aragchi ha avvertito che “il silenzio farà precipitare il mondo in un livello di pericolo e caos senza precedenti“.
La risposta non è solo attesa: è in fase di elaborazione. E probabilmente si articolerà lungo tre direttrici principali, tutte ad alto potenziale destabilizzante: lo Stretto di Hormuz, le basi militari americane nel Golfo, e la rete di milizie e alleati regionali che agisce per conto di Teheran.
Il nodo Hormuz
Lo Stretto di Hormuz rappresenta, da decenni, una delle leve più sensibili nelle mani dell’Iran. È un corridoio marittimo essenziale per il transito del petrolio globale: chiuderlo o anche solo minacciarne l’accesso ha ripercussioni immediate sui mercati e sugli equilibri internazionali. La retorica iraniana si è già intensificata in questa direzione. Il direttore del quotidiano ultraconservatore Kayhan, Hossein Shariatmadari, figura vicina alla Guida Suprema, ha evocato esplicitamente la possibilità di bloccare lo Stretto e colpire le navi occidentali. Una mossa di questo tipo comporterebbe un salto di qualità drastico: sarebbe una sfida diretta all’intera architettura di sicurezza del Golfo e rischierebbe una risposta militare internazionale. Ma proprio per questo, l’Iran potrebbe usarla come minaccia a scopo di deterrenza più che come reale opzione operativa, innescando una spirale di pressione diplomatica e psicologica.

Le basi Usa in Medio Oriente in allerta
Al tempo stesso, si intensificano i segnali che Teheran potrebbe colpire direttamente gli interessi americani nel Golfo. Le basi statunitensi in Qatar, Kuwait, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti rappresentano, dal punto di vista iraniano, una cintura strategica da cui partono e si coordinano le azioni ostili. I Guardiani della Rivoluzione hanno già avvertito che queste installazioni sono ora obiettivi legittimi. L’attacco potrebbe avvenire in forma diretta – con missili o droni – oppure attraverso mezzi meno tracciabili, come azioni cyber o incursioni localizzate. Già in passato, l’Iran ha dimostrato di possedere capacità balistiche in grado di colpire con precisione obiettivi regionali, come nel caso degli attacchi alla base americana di Ain al-Asad nel 2020, avvenuti in risposta all’uccisione del generale Qassem Soleimani.
Between 40,000 and 50,000 American troops are stationed across the Middle East, in bases located in Iraq, Syria, Kuwait, Jordan, Bahrain, Oman, Cyprus, Saudi Arabia, the UAE, Turkey, and Qatar.
Iran had already warned that it would retaliate against US bases if Trump struck its… pic.twitter.com/znlmKnNbkV
— AF Post (@AFpost) June 22, 2025
I proxy dell’Iran pronti a colpire
Ma è nel campo dell’influenza indiretta che l’Iran potrebbe muoversi con maggiore agilità e minore esposizione. Il Paese dispone di una rete di alleati e milizie armate distribuite lungo tutto l’arco mediorientale. In Yemen, gli Houthi hanno già minacciato rappresaglie contro le navi americane nel Mar Rosso, dichiarando pubblicamente l’intenzione di aprire un nuovo fronte. In Libano, Hezbollah resta una carta sempre pronta all’uso: con un arsenale missilistico imponente, il movimento sciita potrebbe intensificare il fronte settentrionale contro Israele, diversificando la pressione. In Siria e Iraq, le milizie sciite affiliate a Teheran potrebbero riattivare la strategia della tensione, prendendo di mira le basi americane già presenti sul territorio o cercando di sabotare la presenza occidentale attraverso attacchi asimmetrici.
Una strategia “a strati”?
Teheran, dunque, si muove su una scacchiera complessa. Deve reagire per non perdere la faccia, per dimostrare capacità di deterrenza e per consolidare il fronte interno, ma allo stesso tempo non può permettersi una guerra totale che metta a rischio la sopravvivenza del regime. È probabile che la leadership iraniana opti per una strategia “a strati”, combinando azioni militari puntuali, pressione simbolica sullo Stretto di Hormuz e attivazione selettiva dei propri alleati nella regione. Il tutto accompagnato da una narrazione diplomatica che continuerà a denunciare l’aggressione subita e a cercare sostegno internazionale presso le Nazioni Unite e l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, nonostante quest’ultima ora viene tacciata di aver fornito la pezza d’appoggio documentale per giustificare l’attacco.
Le prossime ore e i prossimi giorni saranno decisivi per comprendere fino a che punto l’Iran intende spingersi.
Resta però il rischio, sempre presente in queste dinamiche, che la somma di atti “contenuti” da entrambe le parti finisca per costruire, pezzo dopo pezzo, un conflitto regionale su vasta scala. E in quel caso, le tre direttrici-Hormuz, basi Usa e proxy- non saranno più solo pedine di pressione, ma potrebbero “stabilizzarsi” come veri e propri teatri di guerra.