Licenziata per “ritorsione”, il giudice del lavoro reintegra la dipendente con arretrati e risarcimento
Assunta come quinto livello, al primo stipendio si accorge che è stata declassata a settimo livello. Così chiede spiegazioni e viene licenziata per ritorsione. Il giudice del lavoro la reintegra, con tanto di arretrati e risarcimento.
La lavoratrice, assistita dagli avvocati Raffaella Rinaldi e Nicolò Bertotto, si è rivolta al Tribunale di Perugia per contestare il licenziamento avvenuto per apparenti motivi disciplinari dalla ditta dove lavorava, una struttura per l’assistenza dei cittadini stranieri.
Il giudice del lavoro non solo ha accolto la domanda della donna, nonostante la ditta occupasse meno di 15 dipendenti e quindi con il solo diritto di norma ad un piccolo risarcimento dei danni, ma il licenziamento impugnato è stato ritenuto del tutto nullo perché basato unicamente sulla “ritorsione” e dunque su un motivo illecito. L’azienda è stata altresì condannata al pagamento delle retribuzioni dalla data del licenziamento sino alla ricostituzione del rapporto e al versamento dei contributi previdenziali.
Le prove acquisite durante il procedimento, tramite documenti e testimonianze, hanno permesso di appurare che, in realtà, la lavoratrice era stata licenziata soltanto perché si era lamentata della sua situazione lavorativa. La donna, infatti, guardando la busta paga si era accorta che il datore di lavoro l’aveva retrocessa di due livelli del contratto collettivo con conseguente, arbitraria, diminuzione della retribuzione.
A favore della lavoratrice la corrispondenza intercorsa con l’azienda, compresa la diffida inviata dai legali della lavoratrice pochi giorni prima del recesso aziendale, e alcuni fatti che hanno preceduto il licenziamento in tronco. I testimoni hanno raccontato di un colloquio avvenuto in azienda, alla presenza del titolare della ditta e del suo consulente del lavoro, dal quale la dipendente, chiamata per discutere delle sue rivendicazioni, sarebbe uscita in lacrime.
Nel corso di quel colloquio, infatti, il consulente del lavoro avrebbe riferito “che la modifica operata dal datore di lavoro era pienamente corretta”, accusando la donna di “non capire niente”. Il titolare dell’azienda avrebbe detto al consulente “licenziala. Dalle quello che le devi dare. Io questa non voglio più vederla”.
Infondati sono stati ritenuti i generici addebiti mossi dal datore di lavoro, senza una specifica contestazione disciplinare. Il datore di lavoro, infatti, dopo una prima contestazione, generica, non avrebbe fatto seguire un provvedimento disciplinare, ma non avrebbe neanche aperto il procedimento contro la dipendente. Da parte sua il datore di lavoro ha sostenuto che la dipendente “ha impedito ogni forma di dialogo con un atteggiamento aggressivo, di totale chiusura ed irrazionalità”, ponendo in essere “continuativi, reiterati, metodici, comportamenti di totale ed assoluta insubordinazione, mostrando disprezzo e malumore nei confronti dei colleghi; il tutto di fronte agli utenti”. Il licenziamento, quindi, sarebbe la conseguenza dei comportamenti della dipendente che avrebbe “insultato il datore di lavoro” e non si sarebbe attenuta “alle disposizioni impartite dal datore di lavoro in maniera diligente il lavoro” che le era stato affidato. Affermazioni che non hanno trovato riscontro nell’istruttoria.
L’onere della prova del carattere ritorsivo del licenziamento è a carico del lavoratore, ma secondo il giudice “la palese genericità degli addebiti risulta … un’evidente conferma della pretestuosità degli stessi” che siano frutto delle “legittime doglianze sollevate dalla lavoratrice in merito all’illegittima retrocessione dell’inquadramento”.
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