Libia chiama Italia, la sfida di Meloni vale il futuro del Mediterraneo – Il Tempo

Tripoli chiama Roma: tempo scaduto. In Libia, dopo Gheddafi lo Stato è evaporato. Al suo posto, un groviglio di potenze straniere, milizie locali, traffici illeciti, scontri nelle città e diplomazie parallele. L’Italia osserva. Ma arriva sempre un momento in cui una nazione deve scegliere se restare alla finestra o tornare protagonista. E per l’Italia, nel bacino mediterraneo il momento è adesso. Senza considerare che, se il caos aumenta, le «porte di contenimento» dell’immigrazione si spalancheranno verso la nostra Sicilia. È il cupo timore del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, il più impegnato in una faticosa interlocuzione con le «autorità» libiche.

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Non si può più restare a guardare. Appena al di là del Mare Nostrum, i missili russi sono posizionati a soli mille chilometri dalle coste italiane; le rotte migratorie si tracciano nel Fezzan; i terminal energetici sono controllati da uomini senza bandiera. I dossier sono inequivocabili: la Russia è tornata. Non con ambasciatori, ma con mercenari. Non con trattati, ma con vere e proprie basi militari. Nell’Est della Libia, Haftar ha trasformato la Cirenaica in un’estensione operativa del Cremlino. I resti della Wagner, ufficialmente dissolta, ma in realtà riciclata nell’Africa Corps, presidiano infrastrutture, centrali energetiche, snodi strategici.

Gli analisti temono il peggio: dalla base di Tamanhint, Mosca potrebbe colpire il Sud Europa con missili ipersonici. A Ovest, la Turchia ha fatto di Tripoli un suo protettorato. A Sud, dominano bande armate, trafficanti, jihadisti. È lì che si decidono le rotte dei migranti e dei carichi illeciti, grazie alla complicità di tribù transfrontaliere che controllano i confini. Ed è lì che passa anche un pezzo di futuro dell’Italia. Roma conta sull’Eni, che rifornisce le case di Tripoli. Ma Eni, da sola, non basta, senza copertura, è vulnerabile. Gli impianti potrebbero diventare domani ostaggio e, oggi, un oggetto di ricatto. Serve una strategia politica. Serve l’intelligence, che aveva garantito per decenni l’egemonia italiana nel Mediterraneo.
È con l’intelligence che l’Italia ha scritto le sue pagine più efficaci in Libia. Nel 1971, il colonnello Roberto Jucci salvò Gheddafi da un colpo di Stato. Da quel gesto nacque una fiducia che durò quarant’anni. Più tardi, Alberto Manenti, direttore dell’Aise, tenne uniti sicurezza, diplomazia e interessi energetici. Oggi, Gianni Caravelli, suo successore, rappresenta la continuità riservata di quella scuola operativa che non ha mai smesso di agire : è il militare europeo più apprezzato in quell’area dai servizi di mezzo mondo, dalla Cia al MI5.
Anche dopo la Prima Repubblica con Andreotti e Moro, la realpolitik non si è spenta. Dai governi Craxi e Dini, da Prodi a D’Alema fino a Berlusconi, la linea mediterranea è rimasta viva. Il culmine fu il Trattato di Amicizia del 2008: una cornice che garantiva cooperazione migratoria, investimenti, flussi energetici. Due anni dopo, Gheddafi fu ospite d’onore a Roma.
Nel 2011 tutto crollò. La guerra, voluta da Sarkozy e tollerata da Obama, travolse il Colonnello insieme all’intera architettura di messa in sicurezza del Paese nordafricano. Inizialmente l’Italia si oppose, con Berlusconi. Ma poi si piegò su scellerata pressione del Quirinale. Il leader libico fu abbandonato e giustiziato. E con lui, oltre alla Libia tenuta unita dal suo regime, morì anche la centralità italiana perché, da allora, l’Italia non fu più protagonista.
La storia bussa ora di nuovo alla nostra porta. Ci chiede se vogliamo tornare attori o restare spettatori. Una possibile via d’uscita? Un governo provvisorio, guidato da un mediatore libico super partes, legittimato a traghettare il Paese verso elezioni. All’orizzonte, due nomi pesanti: Saddam Haftar e Saif al-Islam Gheddafi. Ma servirebbe una grande amnistia che neutralizzi i signori della guerra, padroni dei territori, arricchitisi con le scorribande di questi anni.

Tripoli intanto è al collasso. Il governo chiacchieratissimo di Dbeibah, pur sostenuto economicamente da Roma, non governa più. I decreti annunciati in queste ore – la creazione di comitati per «rafforzare la sicurezza e la legalità»- sono vuoti proclami, dichiarazioni rituali o meglio, tentativi disperati. Italia e Francia provano a cercare un’intesa: il tema è stato oggetto dei recenti colloqui tra Meloni e Macron. Ma è un matrimonio di convenienza, non di visione. La verità è che nessuno a Bruxelles o a Parigi può fare ciò di cui Roma è capace, se Roma ritrovasse sé stessa.
Nel frattempo, una mossa può cambiare il gioco: Haftar tratta in silenzio con la Turchia tramite il figlio Saddam. Un patto sotterraneo, potenzialmente esplosivo, che potrebbe aprirgli la strada verso Tripoli. Aspetta solo il via libera degli Usa. Eppure Roma ha un jolly da giocare: la relazione con Trump. Se saprà usarlo bene, potrà inserirsi nei nuovi equilibri, dialogare conAnkarae tornare a sedersi al tavolo che conta. Intanto, qualcuno lavora per tagliarci fuori. Il dissidente Hisham el Gomati, residente in Svezia e forse eterodiretto, ha accusato pubblicamente l’Italia, cavalcando un presunto attacco hacker al nostro personale in Libia. Più che una denuncia, sembra un messaggio: vi stiamo osservando.
Le polemiche non si sono spente neanche dopo l’arresto, a Torino, del generale libico Osama ElmasryNjeem il 19 gennaio scorso. Accusato dalla Corte penale internazionale di crimini contro l’umanità e crimini di guerra commessi nella prigione di Mitiga. Solo due giorni dopo, è stato rimpatriato, scatenando polemiche internazionali. Una mossa imprudente: neanche a Tripoli lo volevano più.
L’intelligence italiana conosce bene il territorio, i nomi, le catene di comando e Meloni con il sottosegretario all’intelligence Mantovano lo sanno perfettamente: solo i nostri servizi possono ricucire relazioni con le milizie pragmatiche, arginare la penetrazione russa, frenare l’espansione turca, proteggere gli asset nazionali.
Giampiero Massolo, ex direttore del Dis, lo ha scritto con lucidità: serve una cabina di regia unitaria, che coordini intelligence, Difesa, Esteri, Interni, Energia. Serve una politica estera strutturata.
Per il rapporto di fiducia che ha con la premier, Alfredo Mantovano, attraverso gli uomini dell’Aise sul territorio, ha la rete, le antenne, le competenze. La Libia non è altrove. È davanti a noi, a soli trecento chilometri. È nel nostro mare, nei nostri porti, nelle nostre bollette. Ogni giorno in cui l’Italia tace, qualcun altro ridisegna i nostri confini.
Non è solo una crisi diplomatica. È una spy story in tempo reale, dove l’Italia, nel deserto libico di oggi, deve decidere se esiste ancora.
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