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L’era delle foto istantanee dimentica i morti cristiani

In tutto il mondo, la libertà di culto e l’inviolabilità dei luoghi cristiani sono calpestate con una brutalità che va ben oltre un singolo episodio. I cristiani sono la comunità religiosa più perseguitata: 380 milioni di persone secondo Open Doors, quasi cinquemila uccisi nel solo 2024, soprattutto in Africa, Medio Oriente e Asia. Una violenza che va a tutti gli effetti considerata una delle onde lunghe della storia contemporanea. Se si vuole evitare uno scontro di civiltà, perciò, va posta con urgenza una questione di civiltà. Non ricordarsene solo quando una notizia può essere data in pasto all’opinione pubblica con clamore eccezionale.

Sono trascorse due settimane dal colpo d’artiglieria israeliano sulla Chiesa della Sacra Famiglia a Gaza. La croce bianca rimasta in piedi accanto al muro andato in frantumi. La visita del patriarca di Gerusalemme nell’unica chiesa della Striscia. La condanna di Papa Leone. Sono immagini che hanno acceso l’indignazione, giusto il tempo di finire inghiottite dal frullatore mediatico. Le Forze di Difesa israeliane hanno archiviato l’incidente come un errore tecnico, assumendosene la responsabilità. La telefonata di Trump a Netanyahu ha dato voce al malumore che c’è nella destra evangelica americana, tradizionalmente alleata di Israele. Ma nessuno sforzo per passare dall’episodio al nodo centrale di questa vicenda. Dalla fine della Guerra Fredda all’11 settembre, le minoranze cristiane sono diventate il bersaglio preferito nei conflitti identitari che hanno sostituito le guerre ideologiche: dalle stragi dell’Isis e di Boko Haram alle chiese distrutte in India; dalle condanne a morte per blasfemia in Pakistan alle decine di sacerdoti ammazzati dai narcos in America Latina. Persone e comunità che spesso svolgono un ruolo di ponte e di convivenza con altre fedi. E proprio per questo vengono considerate una minaccia da fanatici e fondamentalisti. Eppure, tutto questo resta sullo sfondo. La società dell’immagine privilegia le istantanee come quelle della chiesa distrutta a Gaza. Fa fatica, invece, a conservare la memoria lunga di queste persecuzioni. L’indignazione mediatica è immediata ma di breve durata. E le vittime cristiane, spesso povere e senza rappresentanza, diventano “invisibili”. Anche perché la cristianofobia in Occidente non si arresta. Un’Europa per la quale i diritti universali sono divenuti la sua religione civile, tende a relativizzare chi muore con una croce al petto. Prevalgono paura e indifferenza. Paura di rappresaglie, come dopo il discorso di Ratisbona di Benedetto XVI, travisato e manipolato anche in Europa, quando le violenze fondamentaliste insanguinarono il Medio Oriente. Ma soprattutto indifferenza verso comunità che non rinnegano la propria fede, e sono per questo disposte a pagare con la vita.

Il Vaticano continua a lanciare ponti e a coltivare il dialogo interreligioso. È il suo stile, la sua silenziosa cifra diplomatica. Ma le democrazie occidentali hanno un dovere diverso: garantire corridoi umanitari, protezione e sanzioni contro chi si macchia di crimini efferati. E i media? Forse non basta raccontare una tantum.

Anche in questo caso, servirebbe una campagna – fosse pure un semplice appello – per chiedere alle classi dirigenti di intervenire. Perché i martiri del nuovo millennio non parlano solo ai credenti. E se il mondo laico vorrà essere credibile nella difesa dei propri valori, non potrà considerare la libertà religiosa un diritto minore.


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