Leo Gassmann: «Soffro di ansia sociale e ho paura di crescere, ma l’arte mi ha aiutato a non avere più paura di essere giudicato per la mia famiglia»
Tra un impegno al cinema e un altro nella musica, Leo Gassmann cerca di infilare dentro qualche viaggietto per ricaricare le energie e, soprattutto, la creatività. «L’ultima volta sono stato a Manchester, una città bellissima che si può visitare a piedi senza prendere nessun mezzo di trasporto», racconta Leo, che adora viaggiare da solo perché la solitudine «ti costringe a interagire con le persone». Un tratto che decisamente non ha in comune con Otto, il ragazzo affetto da FOMO sempre attaccato allo smartphone che vedremo in Una terapia di gruppo, il nuovo film di Paolo Costella nel quale cinque pazienti che aspettano il loro psicoterapeuta decidono di improvvisare una terapia di gruppo per cercare di aiutarsi a vicenda a risolvere i loro problemi.
In cosa l’ha aiutata Otto?
«A scoprire una parte di me che solitamente tengo nascosta, una certa ansia sociale nell’interagire con le persone. Io, in realtà, nasco come timido, anche se la musica e poi il cinema mi hanno dato la possibilità di esplorare e mostrare il lato più estroverso di me».
Da quanto soffre di ansia sociale?
«Penso che si sia sviluppata durante la pandemia, quando sono diventato adulto. Ancora oggi, quando vado nelle piazze con tanta gente, un po’ di ansia mi viene e non so mai come iniziare una conversazione, ho sempre paura di dire qualcosa di troppo. La musica, in questo senso, mi ha aiutato a mitigare molto questo lato di me portandomi a capire che la vita è un gioco e che devi cercare di divertirti senza la paura di essere giudicato. Grazie al personaggio di Otto sono riuscito, poi, a guardarmi dall’esterno e a riconoscere queste sfaccettature, anche se fortunatamente non ho come lui l’ansia di dover essere sempre online che tantissime persone hanno sviluppato negli ultimi anni».
Otto nel film tenta la terapia di gruppo: lei è mai andato da un analista?
«Ho tantissimi amici che vanno in terapia e ho sempre desiderato andarci, solo che non sono mai riuscito a trovare il tempo per farlo. Per il momento penso che la mia terapia sia stata la musica e ora a il set, ma sicuramente è un qualcosa che ho voglia di esplorare e che prima o poi farò. Penso che faccia bene a chiunque, anche a chi pensa di non averne bisogno».
È romantico che consideri l’arte come una terapia.
«Quando si fa musica, quando si scrive e anche quando si sta su un palco si attiva una sorta di meditazione, un momento nel quale devi concentrarti solo su ciò che ti sta intorno per esprimere la tua personalità. È un tipo di riflessione che porta a farti delle domande su te stesso e a cercare delle risposte».
Ha fatto pace con il fatto che non si può rispondere a tutto?
«Assolutamente, anche se sono concetti bellissimi da raccontare, visto che provare a trovare delle soluzioni e dei compromessi nella vita fa parte di noi. Ho accettato, però, che non tutto nella vita è risolvibile, e che bisogna imparare a convivere con le nostre paure e le nostre ansie sociali come spiega anche il film».
Tornando alla sua timidezza: com’è che un ragazzo schivo accetta di costruire una carriera così esposta come la sua?
«A volte i punti deboli possono essere trasformati in punti di forza, e questo mi ha permesso di mantenere la mia timidezza anche sul palco: all’inizio posso sembrare molto sicuro, ma se si sta attenti si noterà nello sguardo e nell’approccio una sorta di dolcezza che deriva, appunto, dalla timidezza, che sto usando per addolcire determinati lati di me».
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