Leggere il Lager in un’ottica di genere si può, parola di Michela Ponzani
Qualche riga preliminare di Memoria:
“[…] Poi un mattino di domenica, mentre siamo all’appello, succede un episodio che dovrà modificare completamente i miei rapporti con Monique e con le sue compagne. […] Genia fischietta Bandiera rossa, io la imito e canticchio la canzone in italiano. Mi tocca sulla spalla e mi chiede se sono comunista. […] Immediatamente Genia e Monique si sgelano, cambiano atteggiamento […]. Monique mi prende sotto la sua protezione e si incarica della mia “educazione politica e sociale”, necessaria per farmi accettare come uguale da tutte le altre. Il suo lavoro è lento e difficile: deve spiegarmi perché lavarsi, pettinarsi e tenersi in ordine, fa parte della Resistenza in campo. Lavarsi quando non c’è né asciugamano né sapone, smacchiare il vestito con l’acqua fredda, lavare mutande e camicia, stenderle e farle asciugare, anche se è proibito, vuol dire trovare la forza di rompere, di violare gli ordini assurdi del sistema. Allenare la memoria e il cervello, secondo lei, è un altro mezzo per resistere alla disumanizzazione. [….].” (Lidia Beccaria Rolfi (1925-1996), La “Maestrina Rossana”, Partigiana combattente deportata nel Lager di Ravensbuck)
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Juden hier” (“Qui ci sono ebrei”)
Ovvero la stupidità del razzismo e dei razzisti, non solo ignoranti. “Juden hier”, una scritta che richiama il periodo più buio del Novecento, comparsa, nel Gennaio del 2020, sulla porta di casa di Aldo Rolfi, figlio di Lidia, partigiana deportata a Ravensbruck nel 1944, una delle grandi voci dell’orrore dei Lager.
L’ignoranza insita nelle persone razziste ha portato gli autori del gesto(imbecille) ad identificare Lidia Beccaria Rolfi come di origine ebraica, in quanto deportata. Nei Lager nazisti – come è noto – non morirono solamente 6 milioni di ebrei, ma furono deportate milioni di persone perché di origine sinti o rom, disabili, omosessuali o per motivi politici, come nel caso di Lidia Beccaria Rolfi.
La scritta “Juden hier”, “qui ci sono ebrei”, come nelle città tedesche durante il nazismo, è comparsa il 23 Gennaio 2020 a Mondovì, sulla porta della casa dove Lidia ha vissuto sino alla morte, nel 1996. La Via dove sorge la casa era stata intitolata proprio alla Rolfi pochi anni fa.
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«Le deportate erano, nel migliore dei casi, estenuati animali da lavoro e, nel peggiore, effimeri “pezzi di immondizia”. Ce lo confermano le pochissime a cui la forza, l’intelligenza e la fortuna hanno concesso di portare testimonianza» (Primo Levi, 1919-1987)
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«Ho sentito come un dovere il fatto di portare avanti questa storia al di là del coinvolgimento famigliare, come un dovere civile perché la storia di queste donne non sia stata vana» (Ambra Laurenzi, ANED, Presidente del Comitato Internazionale di Ravensbruck)
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Si può leggere l’internamento femminile, operato dai nazisti in un’ottica di genere? Si può. Lo fa la Storica Michela Ponzani nel pezzo che trovate sotto, pubblicato sul Sito web Sanoma.it. nel Gennaio dell’anno scorso, e relativo al Lager Femminile di Ravensbruck (il “Ponte dei Corvi).
A ormai pochi giorni del 25 Aprile dell’80°della Liberazione, con le parole della Professoressa Ponzani, ci avviciniamo ad un altro versante della Resistenza al femminile: quello delle donne deportate che comunque hanno resistito, lottando per restare vive e poter raccontare quello che avevano vissuto e/o rallentando e sabotando il “lavoro-schiavo” a cui erano costrette nelle Fabbriche come la Siemens di Ravensbruck dove erano “affittate” ai padroni dalle SS, in molti Dall’Agosto del 1942 all’Aprile del 1945, la Siemens & Halske aveva aperto un Centro di Produzione industriale adiacente il Lager femminile di Ravensbrück, nel quale 2300 internate furono costrette al lavoro forzato. La Siemens sfruttava il lavoro degli internati e delle internate non solo a Ravensbruck ma anche ad Auschwitz, Flossenbürg e Mauthausen, dove aveva, all’interno dei Campi o nelle adiacenze, aperto Stabilimenti Industriali per la produzione di trasmettitori e nel settore delle comunicazioni a distanza, così pagando con la vita questa loro lotta. (*)
Lo facciamo qui, continuando il nostro percorso nella Memoria dei diversi modi che la resistenza al nazifascismo ha trovato per estrinsecarsi, grazie agli uomini, alle donne e ai ragazzi che comunque – e nonostante tutto e tutti – a questi momenti di resistenza hanno dato vita. Lo facciamo per ricordare non solo il loro sacrificio, ma il perché “non possiamo non dirci antifascisti.”
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(*) Con l’inizio e soprattutto con il protrarsi della guerra, le Fabbriche tedesche sono in crisi. Ogni giorno si perde sempre più personale; i volontari stranieri sono ormai sottoposti ad un regime militare e vengono affiancati da lavoratori che i governi dei Paesi occupati, Italia compresa, hanno obbligato a trasferirsi in Germania. Ma non basta. Oswald Pohl, ex Commissario della Marina, al culmine di una lunga carriera nell’apparato nazista, il 1° Febbraio del 1942 riunisce l’insieme dei Servizi burocratici delle SS in un unico Ufficio, il WVHA (Wirtschafts-Verwaltungshauptamt, Ufficio Centrale Economico e Amministrativo delle SS). Poiché dalle SS dipendono i Campi di Concentramento e sterminio, l’intento del WVHA è chiaro: sfruttare con tutti i mezzi il lavoro dei deportati. Il 30 Aprile 1942 Pohl ufficializza, con una Circolare, il carattere produttivo dei Lager, ribadendo che la manodopera può essere affittata alle Industrie e che deve essere sfruttata senza limiti.
Pohl propone le nuove direttive ad Himmler che nel 1943, essendo ormai gran parte degli operai maschi tedeschi al fronte, decide di attingere all’unica fonte cospicua e gratuita a sua disposizione, i prigionieri dei Lager: per loro varrà la regola dell’annientamento mediante il lavoro. I prigionieri rappresentano una fortuna insperata per gli strateghi nazisti: si tratta, è vero, di manodopera poco produttiva, ma facilmente sostituibile.
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Ravensbrück, il lager delle donne
Michela Ponzani – 17 Gennaio 2024
Ravensbrück fu il più grande campo di concentramento costruito nella Germania orientale, entrato in funzione nel 1939 per ospitare le prigioniere politiche, e attivo fino al 1945. Qui furono imprigionate oltre 100.000 donne provenienti da ogni parte dell’Europa occupata dall’esercito tedesco. Un racconto dell’inferno del lager attraverso le testimonianze delle sopravvissute.
Le testimonianze delle sopravvissute
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Maria è solo una delle tante donne imprigionate per motivi politici o razziali nel lager di Ravensbrück Fürstenberg/Havel, il più grande campo di concentramento costruito nella Germania orientale, entrato in funzione nel 1939 per ospitare le prigioniere politiche, oppositrici del regime nazista, e attivo fino al 1945. Qui furono imprigionate oltre 100 000 donne, provenienti da ogni parte dell’Europa occupata dall’esercito tedesco. Viaggiano su convogli provenienti dalla Cecoslovacchia, dall’Ungheria, dalla Polonia, dalla Francia e dall’Italia, e sono destinate in gran parte a lavorare come schiave per l’industria bellica del Reich, ma a migliaia saranno uccise col gas. Altre finiranno i loro giorni fra stenti, sevizie, malattie e orribili esperimenti genetici. Alla fine della guerra, ne sopravviveranno soltanto 8000.
L’universo concentrazionario in un’ottica di genere
Ravensbrück è uno degli angoli più bui della storia del Novecento, un “non-luogo dell’umanità”, che ha obbligato gli storici a esplorare l’universo concentrazionario tenendo conto dell’ottica di genere. In passato, infatti, si pensava che non vi fosse differenza fra uomini e donne all’interno di un lager, perché la morte accumunava la sorte di tutti. Eppure, come ha notato Anna Foa, una differenza di genere è esistita, se è vero che ad esistere è stata l’attenzione dei carnefici per il corpo femminile. Gli esperimenti effettuati sui corpi delle donne e sulla fertilità, gli aborti, le sterilizzazioni e gli assassinii dei bambini appena partoriti dalle prigioniere sono atti di crudeltà riservate a quelle donne che osarono alzare la testa contro il regime di Hitler. Una colpa imperdonabile per “soggetti sociali pericolosi”, vero male da estirpare per realizzare l’esperimento totalitario di rigenerazione della stirpe ariana. Preservare <
La deportazione e il viaggio
Costrette a resistere agli stenti, alla denutrizione e al rigidissimo clima invernale, le italiane internate a Ravensbrück sono ad oggi conteggiate in 871. Fra loro c’è Laura Polizzi, partigiana della XII Brigata Garibaldi, deportata insieme a tutta la famiglia. Arrestata per attività antifascista, in seguito alla delazione di una vicina di casa, e interrogata brutalmente nella questura di Parma affinché riveli la rete clandestina di cui è a conoscenza, Laura viene destinata a un campo in Germania. Con lei viene portata via anche Julca Destrovik, una profuga slava arrivata a Parma per organizzare i gruppi di difesa della donna, in evidente stato di gravidanza. Distesa nel suo giaciglio nella camerata del lager, Laura rivede tutti i particolari di quella terribile mattina. <
Gli interrogatori durano un mese finché Laura e Julca non vengono mandate nel campo di transito di Bolzano, dove le detenute sostano qualche tempo in attesa della deportazione in Germania, impiegate come donne di servizio per le truppe tedesche. <
Nell’agosto del 1944 le due donne arrivano a Ravensbrück e già durante il viaggio capiscono di trovarsi in un limbo, in un passaggio che le sta conducendo verso qualcosa di oscuro e ignoto. La testimonianza di Laura si snoda nella descrizione delle ore passate nei vagoni piombati, tra la paura e i malesseri fisici, senza poter respirare, bere o mangiare. Il viaggio è già un modo per eliminare i più deboli, soprattutto anziani e bambini, e quando non uccide, serve a umiliare, a piegare la dignità. <
L’inferno del lager
L’indomani mattina inizia la distribuzione delle divise, <
«L’appello si svolge per tutta la durata, in posizione di attenti, sotto la pioggia, la neve o il vento. All’appello è proibito muoversi, parlare con le compagne, accoccolarsi quando le gambe non reggono più, battere i piedi per scaldarsi, avere il petto coperto con un pezzo di carta rubata per difendersi dal freddo. L’appello è un mezzo, fra i tanti, studiato apposta per mettere le prigioniere in condizione di non pensare, per disumanizzarle, per distruggerle.>>[2] Racconterà così Lidia Beccaria Rolfi, prigioniera n. 44140, oppositrice del fascismo, in un’intervista rilasciata nel 1965 alla regista Liliana Cavani per il celebre documentario Rai intitolato La donna nella Resistenza. <
L’azzeramento di ogni condizione umana
In quest’inferno, le ragazze più giovani, fra i 16 e i 20 anni, si aggrappano alle madri o alle donne più grandi, unica forma di appiglio per la sopravvivenza, soprattutto quando le adolescenti vedono sparire il ciclo mestruale, a causa degli esperimenti medici effettuati sui loro corpi, o quando i capelli cominciano a cadere. Uno scempio al quale si assiste con rassegnazione, mentre i giorni passano lenti in attesa della morte.
Il campo non è soltanto un moderno e sofisticato luogo di detenzione fisica e di isolamento dal mondo esterno, ma l’inizio dell’azzeramento di ogni condizione umana, dove si perde il rispetto per la decenza e il pudore. Nelle memorie delle donne, questa dimensione rimane ben fissa anche a distanza di molto tempo da quegli avvenimenti traumatici, come dimostra la testimonianza di Rosmunda C., una ragazza catturata a Firenze nel marzo 1944 per antifascismo. Appena arrivata al campo insieme con altre ragazze, viene subito mandata in infermeria per la visita medica di controllo. Ed è a questo punto che i ricordi si caricano di livore e astio. «Ci ordinarono di spogliarci nude e ci dettero dei camiciotti a righe sul grigio, poi una alla volta fummo sottoposte alla visita ostetrica.» Quel giorno Rosmunda e le altre ragazze sono costrette a perdere la verginità. Un atto di immotivata crudeltà che fa scoprire alle detenute di essere scese, di colpo, all’ultimo stadio della categoria umana. La mattina dopo, ancora sotto shock per il trattamento ricevuto in infermeria, vengono sottoposte a una nuova tortura, perché per lavarsi bisogna uscire dalla baracca «a rompere il ghiaccio con dei sassi, dentro le fontane»[4].
Vivere la prigionia significa affrontare anche forme di sofferenza più sottili, di natura psicologica, attuate volutamente per degradare l’essere umano agli istinti più bassi, in un tragico bollettino di supplizi quotidiani: alla promiscuità nelle baracche, alla sporcizia, all’assenza di acqua e cibo, si aggiungo gli incidenti sul lavoro e la violenza di restare chiuse, con le porte sigillate, all’interno dei capannoni di fabbrica, che vengono periodicamente bombardati dall’aviazione angloamericana. Le “lavoratrici coatte”, come vengono definite le deportate nei lager, in caso di incursioni nemiche, non dispongono di ricoveri antiaerei, come invece le maestranze operaie. È ancora Rosmunda a raccontare come tutte le mattine, prima di andare a lavorare, i tedeschi mostrassero alle prigioniere «la fossa comune con i corpi che ancora respiravano e si muovevano […] dicendoci che se non si faceva il nostro dovere o si tentava la fuga, quella era la nostra fine»[5].
Chi torna da questo inferno, ha il dovere di non dimenticare, soprattutto quando gli occhi hanno assistito alla morte di bambini appena venuti al mondo. Le donne arrivate a Ravensbrück in stato di gravidanza vengono in un primo momento costrette ad abortire, anche se questo significa morire e per i tedeschi perdere braccia da lavoro; in seguito la procedura all’interno del campo cambia e il personale medico decide di non rischiare la vita delle “schiave di Hitler” permettendo loro di portare a termine la gravidanza. Ma dovranno essere proprio le donne a sopprimere i figli appena nati, soffocandoli o annegandoli in una tinozza d’acqua. Anna Cherchi Ferrari, deportata a Ravensbrück dopo un periodo di detenzione alle Nuove di Torino, per attività antifascista (diede rifugio a renitenti alla leva e soldati sbandati, per poi unirsi col fratello alle bande partigiane autonome nelle Langhe) ricorda, nel corso di un’intervista rilasciata nel 1994, l’orrore che i suoi occhi avevano visto. Una ragazza ungherese aveva partorito un bambino di quattro kg il giorno di Natale. «Lo lasciarono morire al freddo, in una scatola all’aperto.»[6]
Un luogo della memoria
Oggi Ravensbrück è un luogo della memoria. Chi si avventura fra le baracche dormitorio, rimaste intatte, e percorre i locali del Memoriale di Ravensbrück, fra gli ex capannoni della zona industriale della ditta Siemens, si ritrova alla fine del viaggio su una piccola striscia di terra fra le sponde del lago Schwedt, dove furono gettate le ceneri delle prigioniere finite nei forni crematori. Uno splendido lago, da cui si potevano intravedere le barche degli abitanti del villaggio, all’epoca perfettamente consapevoli dell’orrore che si consumava vicino alla loro casa.
Pochi luoghi della storia conservano la potenza visiva ed emotiva del lager di Ravensbrück. Sulle acque di quel lago si riflette l’immagine di una statua divenuta il simbolo del campo: Tragende (La portatrice), una donna che porta fra le braccia un’altra donna senza forze, morente. Due donne ritratte nel momento di massima fragilità, che recano ancora oggi un forte messaggio: un lager non si visita, lo si incontra per conoscerlo, per incontrare e conoscere, nel silenzio, anche se stessi.
Note
[1] M. Ponzani, Guerra alle donne. Partigiane vittime di stupro, “amanti del nemico” 1940-45, Einaudi, Torino 2021, p. 175.
[2] Lidia Beccaria Rolfi, in Ravensbruck, il lager delle donne, ANED, p. 39.
[3] Lidia Beccaria Rolfi, La vita e la morte nel lager, Rai Teche.
[4] M. Ponzani, Guerra alle donne, cit., p. 177.
[5] Ivi.
[6] La testimonianza di Anna Cherchi Ferrari è riportata in A. Gasco (a cura di) La guerra alla guerra, p. 153.
Michela Ponzani – È professore a contratto di Storia contemporanea presso l’Università degli studi di Roma “Tor Vergata”. È conduttrice e autrice per Rai Cultura di “Storie contemporanee. La ricerca storica in Italia”. Tra le sue opere: Figli del nemico. Le relazioni d’amore in tempo di guerra 1943-48 (2015); con Massimiliano Griner, Donne di Roma. La lunga strada dell’emancipazione femminile nella città eterna (2017); Guerra alle donne. Partigiane vittime di stupro, “amanti del nemico” 1940-45 (2021); Processo alla Resistenza. L’eredità della guerra partigiana nella Repubblica 1945-2022 (2023); Caro presidente, ti scrivo. La storia degli italiani nelle lettere al Quirinale (2024).
Per Sanoma Italia (Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori) è autrice del corso Lo stupore della storia, per il secondo biennio e il V anno della SSSG.
(Fonte: https://sanoma.it/articolo/ravensbruck-lager-donne)
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