Piemonte

Le zampe (palmate) della rana toro sul Piemonte


Un alieno nel nostro giardino

Questa volta, parlando di anfibi, mi tocca farlo per denigrare la presenza di una specie aliena sul nostro territorio. Se da un lato raccontiamo le problematiche del mondo degli anfibi, minacciato per oltre il 41% delle specie, dall’altro dobbiamo lamentare la presenza di una rana yankee dalle nostre parti. Una specie grossa, muscolosa e prepotente: è già tanto che non abbia il ciuffo arancione alla Donald Trump! Qualcuno potrebbe spiegarmi, tra l’altro, perché molte delle specie invasive provengono proprio dal continente americano? Scoiattolo grigio americano, testuggine palustre dalle orecchie rosse, gambero della Louisiana, rana toro… Mah!

Della rana toro ho già parlato in passato su Piemonte Parchi ma sono in qualche modo obbligato a parlarne nuovamente e ad approfondire alcuni aspetti biografici. Gigante dei territori orientali americani, la rana toro, Lithobates catesbeianus, è un colosso che può raggiungere i 20 cm di corpo (zampe escluse) e un peso di oltre un chilo. Deve il suo nome, oltre alla taglia, anche al proprio canto, un vero e proprio e poderoso “muggito“. La rana toro è un’atleta completo: nuota, salta e scava con abilità. Ma è a tavola che dà il meglio di sé: il suo menù spazia da insetti, pesci e anfibi a piccoli rettili, uccelli acquatici e topi, senza disdegnare un pizzico di cannibalismo con esemplari più piccoli della sua specie. È un predatore per eccellenza, che applica alla lettera la filosofia “basta che si muova”. Come ha fatto questo Hulk degli anfibi a compiere il balzo dal Mississippi alla pianura piemontese? La risposta ha un unico, prevedibile colpevole: l’uomo.

Dagli anni ’30 – e con un picco eclatante negli anni ’60-’80 – in Europa si è diffusa la moda di allevare rane toro per le loro cosce, ritenute una prelibatezza. L’Italia, con la sua proverbiale lungimiranza, non si tirò indietro. All’epoca si allevava, si vendeva e si sperimentava con animali esotici. Poi, seguendo un copione già visto con specie come il pesce gatto, gli scoiattoli americani e la nutria, accadde l’inevitabile: esemplari di rane toro sfuggirono da allevamenti poco sicuri o furono rilasciati. Le prime segnalazioni in Italia risalgono agli anni ’50 in Emilia-Romagna.

Il trasporto accidentale di girini di rana toro insieme a pesci d’acqua dolce (come persici trota, black bass, pesci gatto) destinati alla pesca sportiva ha poi contribuito assai all’introduzione e alla diffusione di questa specie aliena e invasiva in Italia. Fino a tempi piuttosto recenti ci sono state regolari traslocazioni di avannotti di pesci dalle regioni native della rana toro. Negli stessi stagni e corsi d’acqua da cui venivano prelevati i pesci, erano spesso presenti anche le rane toro e i loro girini. Durante le operazioni di raccolta, era quasi inevitabile che alcuni girini o uova finissero accidentalmente mescolati nei carichi di pesce. Sia come sia, le popolazioni di rana toro sono ormai ben consolidate in diverse regioni italiane, soprattutto nel Nord Italia. Il danno oramai è fatto

Incontro con l’invasore: storie di campo

Il mio primo contatto con la rana toro in Piemonte è avvenuto tra gli anni ’80 e gli anni ’90 nelle piane di Poirino. Lì, la campagna è costellata di corpi d’acqua realizzati dall’uomo per l’irrigazione, la macerazione della canapa e per l’allevamento della tinca gobba. Essendo bacini d’acqua permanenti, si sono prestati molto bene a favorire l’invasione della rana toro. L’habitat perfetto per questo anuro è infatti rappresentato da acque calme, ricche di vegetazione, con abbondante cibo e, soprattutto, con un’estate lunga e calda che permette ai girini di completare il loro sviluppo. Importante poi che i corpi d’acqua non prosciughino, in modo che i girini possano crescere, visto che possono impiegare anche due anni per metamorfosare. Anche questi, al pari degli adulti, raggiungono dimensioni ragguardevoli, fino a 10-12 cm di lunghezza.

Le prime volte che trovai questi girini li scambiai con quelli del pelobate, anch’essi molto grandi. Però il girino della rana toro è molto caratteristico, giallastro con macchiettatura scura (occhi sempre un po’ da bamboccioni). Rinvenni questi girini già verso il mese di febbraio, mentre studiavo il comportamento del rospo comune. Normalmente, in questo periodo si cominciano a rinvenire in acqua i primi tritoni punteggiati, i tritoni crestati e le rane dalmatine. E, per l’appunto, i rospi comuni. Sono questi i primi colonizzatori che sfruttano le piogge primaverili, ancora con l’acqua gelida. In quel periodo, mi recavo con amici dell’Università di Torino a studiare la selezione sessuale nei rospi, tentando di capire se avevano più successo riproduttivo i maschi piccoli o quelli grandi e se le cosiddette “mating balls” (grovigli da orgia sessuale con un’unica femmina spasmodica al centro e tanti maschi aggrappati esternamente) presentassero caratteristiche particolari. Aggirandomi di notte con la mia fida torcia (all’epoca si usavano ancora le pesantissime ma potenti MagLite) mi imbattei in una stranissima situazione. Nell’acqua c’erano dei grossi girini in metamorfosi con le quattro zampe già ben sviluppate ma con la coda ancora presente, evidentemente di rana toro. Alcuni di questi super-girini in metamorfosi erano agguantati in un inequivocabile amplesso da maschi di rana agile. Ma come caspita avranno fatto questi benedetti maschi di rana agile a scambiare girini di rana toro con le proprie femmine della specie?

La realtà è che i maschi di rana agile, come molti altri anfibi a riproduzione esplosiva (tra cui anche il rospo comune), sono talmente “infoiati” nella breve stagione degli amori che tentano di accoppiarsi con qualsiasi cosa si muova. Se l’oggetto di tale desiderio è una femmina ricettiva, questa non emetterà alcuna vocalizzazione. E quindi il maschio, che preferisce le femmine mute in uno slancio di patriarcato, si accoppierà con lei. Invece, se il maschio si imbatte in una femmina che ha già deposto le uova, in un altro maschio o in un individuo di un’altra specie, riceverà come risposta un cosiddetto “release call“, un canto sincopato a bassa frequenza che assomiglia nella struttura armonica e nella successione temporale.

Questo canto farà sì che il maschio si allontani alla ricerca di un altro partner, per non sprecare alcun tempo ed energia. Trovare per contro un grosso girino in metamorfosi, come quello di rana toro, significa imbattersi in qualcosa di sconosciuto, nei confronti del quale la selezione sessuale non ha potuto fare un granchè. Insomma, una “quasi-rana”, per giunta (e ovviamente) anch’essa “muta”. Quindi facilmente il maschio la scambierà per una femmina della propria specie (in quanto non riceverà alcun canto di rilascio) e rimarrà agganciato per ore al girino in un amplesso imbarazzante, nel tentativo, ovviamente infruttuoso evolutivamente, di indurre il girino alla deposizione. Questo accoppiamento “sballato” e interspecifico può comportare serie problematiche per le popolazioni autoctone di rana agile, in quanto il maschio sprecherà il proprio tempo e non andrà a trovare le proprie femmine, con il conseguente spreco di energie riproduttive. Sospetto che questo bizzarro comportamento possa portare a degli scompensi nel successo riproduttivo di una popolazione laddove sia presente anche la rana toro. Ma nessuno, finora, ha studiato questo aspetto (un suggerimento per i prossimi biologi della conservazione).

Il monopolio della distruzione

Detto ciò, nell’arco di pochi anni ho osservato quei piccoli laghetti riempirsi sempre di più di rane toro, in particolare di giovani e di pochi adulti territoriali che spadroneggiano. Infatti questi bestioni si nutrono di qualsiasi cosa. All’inizio in quei siti trovavo ancora rane agili, rospi e altre anuri di altre specie (tra cui raganelle e rane verdi). Poi, nell’arco di poco tempo, la comunità di batraci si è trasformata in un bieco monopolio. Per ogni laghetto di solito c’è un solo maschio adulto, mentre tutti gli altri individui presenti sono giovani o subadulti. Per dirla tutta: le rane toro si sono prima pappate pesci e altri anfibi e poi sono passate a nutrirsi direttamente della propria prole: della serie, ti faccio 20.000 uova e una parte di queste diventerà il mio sushi personale. Qui la commedia diventa amara, molto amara. L’impatto della rana toro sulle specie autoctone è un capolavoro di efficienza distruttiva, in quanto non ha nemmeno problemi ad attaccare e ingoiare un rospo comune (Bufo bufo) o una rana verde adulta. È un predatore così generalista e vorace che può portare al collasso demografico di intere popolazioni in poche stagioni.

Ma il tocco di classe dell’invasore, è una vera arma invisibile: il famigerato fungo chitridio, Batrachochytrium dendrobatidis, per gli amici e per i nemici semplicemente “Bd”. Questo patogeno è tristemente noto per essere una delle cause principali del declino globale degli anfibi, responsabile di estinzioni di massa in tutto il mondo. Il meccanismo è subdolo: il fungo microscopico colonizza la pelle degli anfibi, fondamentale per la respirazione e per l’equilibrio idro-salino, portandoli a morte per arresto cardiaco. E qui sta l’amarissima ironia: la rana toro è un noto “serbatoio asintomatico” del chitridio. Può ospitare il fungo sulla sua pelle senza sviluppare la malattia, diventando così un perfetto vettore e untore.

Quindi, mentre si sposta da uno stagno all’altro, la rana toro non solo divora le specie locali, ma le infetta con questo agente patogeno letale, come un tiratore scelto che spara proiettili avvelenati. È una doppia minaccia sinergica e letale: la pressione predatoria diretta elimina fisicamente gli individui, mentre la pressione patogenetica indebolisce e stermina le popolazioni superstiti che tentano di resistere. È un assalto su due fronti a cui le nostre specie autoctone, già fragili di loro, non hanno grande possibilità di resistere.

Un fallimento annunciato

Ho avuto diretta esperienza di questa vicenda sempre a Poirino, in un sito dove, all’inizio degli anni 2000, collaboravo appassionatamente per studiare e a conservare la sparuta popolazione di pelobate fosco e altre specie sintopiche di anfibi. Il gestore dell’area decise un bel giorno di procedere all’impermeabilizzazione di uno di quei bacini con argilla prelevata da un altro laghetto. È questa una pratica totalmente sconsigliata nei manuali di conservazione anfibia, perché questo trasferimento di materiali da un sito all’altro facilmente favorisce la dispersione del chitridio e di altri anfibi, anche alloctoni, come, per l’appunto, la rana toro e il gambero della Louisiana. E infatti questi due simpatici invasori alieni arrivarono subito dopo questo trapianto di argilla, insieme al chitridio. È molto probabile che la genesi di questi alloctoni e del patogeno sia da ricercare anche in quell’azione. All’epoca tentai di oppormi alla pratica di trasferimento dell’argilla, ma non venni ascoltato. Dissi che non era conveniente e anzi era rischioso spostare allegramente argilla, senza prima procedere a un controllo sulla presenza del chitridio. Non venne purtroppo fatto. Ebbi evidentemente un’amara ragione, ma purtroppo così finì anche la mia collaborazione. Peccato.

La rana toro è oggi classificata come una delle 100 specie aliene più invasive al mondo. L’Unione Europea, con il suo Regolamento 1143/2014, la inserisce nella lista delle specie di “rilevanza unionale“, il che implica il divieto di detenzione, commercio, trasporto e riproduzione. Un bel bollino rosso. Peccato che per la rana toro, ormai stabilizzata, sia come chiudere il cancello della stalla dopo che i buoi (o, in questo caso, le rane) sono scappati.

E poi c’è il fattore umano. La percezione pubblica è spesso distorta. “Poverine, sono solo rane!”, si sente spesso dire. Oppure, con un salto logico degno di un atleta olimpionico: “Se sono così tante, perché non le mangiamo?” L’idea di un “piano di prelievo” o di “recupero a scopo alimentare” è spesso un’arma a doppio taglio: istituzionalizzare la caccia potrebbe, in teoria, controllare le popolazioni, ma rischia di creare un mercato che, per sua natura, potrebbe essere incentivato a mantenere la specie in certe aree per continuare il “business”. Di solito viene sconsigliato. Un paradosso ecologico ed etico di quelli amari. Inoltre, chi garantisce che questa movimentazione a scopo alimentare non diffonda ancor più il chitridio?

La realtà odierna è che l’eradicazione completa in Italia è ormai un’utopia. L’obiettivo, più realistico e triste, è il contenimento. Cercare di proteggere le aree più preziose, le “arche” della biodiversità, creando barriere fisiche o mantenendo popolazioni locali di autoctoni con interventi continui e dispendiosi. È una guerra di trincea, combattuta da pochi tecnici e volontari appassionati, contro un nemico che, semplicemente, fa quello che ha sempre fatto: crescere, moltiplicarsi e fare da taxi a un fungo assassino.

La prossima volta che, in una notte d’estate, sentirete quel basso profondo e insistente, anche un po’ spaventoso, non pensatelo come il romantico sottofondo della campagna. Pensatelo invece come un vero e proprio requiem. Per la rana agile, per il rospo, per i tritoni, insomma, per un ecosistema che stiamo perdendo. È il suono di un’ironia amara e vischiosa, che si leva, indisturbata, dalle acque che credevamo nostre, portando con sé non solo la fame, ma anche la pestilenza.

 

* Franco Andreone è Conservatore di Zoologia al Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino, membro del gruppo di coordinamento dell’ IUCN/SSC Amphibian Specialist Group , Co-Editor di FrogLog e Co-Chair di IUCN/SSC Italia


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