Emilia Romagna

le storie dei migranti giunti a Ravenna


La lunga prigionia, le torture subite, le morti e il disperato viaggio in mare. Sono tante e strazianti le storie delle 82 persone giunte a Ravenna con la nave Life Support di Emergency, il cui sbarco è terminato poco dopo le 16 di martedì alla banchina di Fabbrica Vecchia, a Marina di Ravenna. Come ha reso noto la Prefettura, degli 82 migranti la maggior parte proveniva dall’Eritrea (48 persone) e dall’Etiopia (15 persone), e il resto da Nigeria, Ghana, Sudan, Camerun e Togo. Il gruppo è composto da 68 uomini, e 14 donne; tra di loro  sono presenti 27 minori (23 maschi e 4 femmine), 24 dei quali non accompagnati. Tutti i migranti giunti questa mattina rimarranno nella nostra Regione. Due donne, di cui una incinta, sono state precauzionalmente accompagnate in ospedale a Ravenna.

“Lo sbarco si è svolto senza difficoltà, ringrazio le autorità e i volontari che ci hanno assistito contribuendo con la loro collaborazione a rendere le operazioni veloci e serene – commenta Domenico Pugliese, comandante della Life Support -. Ora che tutti i naufraghi sono finalmente al sicuro a terra non possiamo che augurare loro il meglio per il futuro”.

Il viaggio della Life Support

Giovedì la Life Support ha effettuato un’operazione di soccorso in acque internazionali, portando in salvo 82 persone, tra cui 27 minori. I naufraghi si trovavano in acqua da più di quattordici ore su un gommone sovraffollato e con i tubolari sgonfi. Dopo aver completato il soccorso e aver informato le autorità competenti alla nave di Emergency è stato quindi assegnato il porto di Ravenna come destinazione, a oltre 900 miglia dal punto in cui è stato effettuato il soccorso.

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Chiara Picciocchi, mediatrice culturale a bordo della Life Support afferma: “Mi ha colpito molto la storia di una madre sola che è partita con sua figlia, affrontando un viaggio pericoloso e difficile, per riuscire a garantire a sé stessa e a lei una vita migliore. Auguro alle due donne e a tutti i naufraghi di vedere realizzati i loro sogni”. Come si diceva, tra le 82 persone soccorse, 14 erano femmine, di cui 11 donne, 1 ragazza minore non accompagnata, 2 bambine accompagnate, più 23 ragazzi minori non accompagnati e un bambino accompagnato. Tutti hanno riferito di essere partite da Zawiya, in Libia.

“Imprigionato per 9 mesi in Libia. Peggio della guerra”

“Sono arrivato in Libia nel 2023, lì mi hanno subito messo in prigione per nove mesi, la mia famiglia ha dovuto pagare 10.000 dollari per farmi uscire – racconta un minore non accompagnato soccorso dalla Life Support – Dopo il rilascio i trafficanti mi hanno portato a Tripoli, ma lì sono stato arrestato di nuovo e portato nella prigione di Oussama. Per uscire, chiedevano altri 10.000 dollari. In quella prigione non c’è vita. Le persone muoiono lì dentro, non ci sono vestiti, non c’è cibo, non c’è acqua. Si viene picchiati, si muore. Solo pagando si può uscire”.

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“Sono scappato dall’Etiopia al Sudan, ma anche lì c’era la guerra – prosegue il ragazzo – Non avevo mai pensato di venire in Europa, ma ovunque andassi trovavo violenza. Però quello che ho vissuto in Libia è peggio della guerra. Ora che sono finalmente al sicuro mi sento come se fossi nato una seconda volta e vi chiedo solo una cosa: parlate di chi è ancora in prigione in Libia. Persone che vivono in condizioni disumane e che non hanno voce, ma che voi potete far sentire”.

“Hanno provato ad abusare di me, mi hanno picchiata e torturata”

Una giovane donna soccorsa dalla Life Support racconta: “Nel mio Paese c’era la guerra, sono stata ferita ad una gamba e dopo essermi rimessa, ho iniziato il viaggio. Ero con altri cinque ragazzi. I trafficanti hanno subito provato ad abusare di me sessualmente, io continuavo a rifiutarmi e allora hanno cominciato a picchiarmi con il calcio della pistola. Nel deserto del Sahara ci davano da bere acqua mischiata con la benzina, non avevamo diritto a cibo né acqua, se chiedevamo qualcosa ci picchiavano. Poi ci hanno nascosto in una prigione, dove continuavo a sanguinare e ad essere picchiata su tutto il corpo. Quando finalmente ci hanno rilasciati, ci hanno venduti ai poliziotti libici e siamo stati imprigionati nuovamente”.

“Anche lì ci torturavano, in quella seconda prigione ho visto cose terribili – racconta ancora la donna soccorsa – alcune donne sono morte, una madre somala non riusciva ad allattare il suo bambino perché non aveva latte così il piccolo è morto. Non avrei mai immaginato che il viaggio potesse diventare così disumano. Noi eritrei ed etiopi cristiani venivamo trattati peggio degli altri, peggio dei musulmani. Solo quando la mia famiglia è riuscita a raccogliere 2.200 dollari, mi hanno lasciata andare. Ancora oggi non riesco a credere di aver attraversato il mare, mi sembra un sogno. Chiedo a chiunque possa farlo, di aiutare chi è ancora nelle carceri libiche. Spero di poter aiutare la mia famiglia, il mio sogno è riuscire a portarli in Europa e averli vicini”.


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