Società

Le parole che aiutano a riconoscere le relazioni tossiche

Love bombing, gaslighting, negging, future faking. Dietro questi termini si nascondono dinamiche dolorose, spesso invisibili. Le relazioni tossiche non sono una novità, ma negli ultimi anni abbiamo trovato parole più precise per raccontarle. Termini, molti dei quali di origine inglese, che non solo descrivono ciò che accade, ma aiutano anche a riconoscerlo. Perché dare un nome alle cose è il primo passo per comprenderle, e comprenderle è il primo passo per difendersi.

È con questo obiettivo che Babbel, l’app che favorisce la comprensione reciproca attraverso le lingue, ha collaborato con Valentina Trespi, psicologa e psicoterapeuta, per esplorare il lessico delle relazioni tossiche. Un’indagine che porta alla luce i meccanismi disfunzionali che possono annidarsi nei legami amorosi, ma anche nelle amicizie e nei rapporti familiari.

Cominciamo da gaslighting, forse il termine più conosciuto: indica quando qualcuno manipola la percezione della realtà di un’altra persona, facendola dubitare della propria memoria, lucidità o sensibilità. È una violenza invisibile, fatta di frasi come: «Sei troppo sensibile», «Ti inventi tutto», «Non è successo». Chi subisce gaslighting finisce per non fidarsi più neanche di sé.

Molto simile, ma più sottile, è il negging: consiste nel fare complimenti che in realtà sono critiche mascherate. Come dire: «Non pensavo che ce l’avresti fatta, invece mi hai stupito». Il risultato? L’altro si sente insicuro e cerca approvazione proprio da chi lo sminuisce.

Poi c’è il** love bombing,** una esplosione di affetto — regali, attenzioni, messaggi — che può sembrare romantica, ma ha un fine manipolatorio: creare una dipendenza affettiva, per poi alternare vicinanza e gelo, e tenere l’altro sotto controllo.

In questa altalena emotiva si inserisce anche il future faking: il manipolatore promette un futuro insieme (matrimonio, figli, viaggi), senza alcuna intenzione di realizzarlo. Serve solo a legare l’altro a sé, alimentando speranze che verranno sistematicamente disattese.

Quando le cose si complicano, spesso arriva l’ostruzionismo (in inglese stonewalling), cioè il rifiuto di parlare, di risolvere un conflitto, di affrontare un problema. Si fa finta di niente, si gira la faccia, si nega il dialogo. Una forma passiva-aggressiva che congela la relazione.

In alcuni casi, chi manipola non agisce da solo: si serve delle cosiddette «scimmie volanti» (flying monkeys), persone che lo aiutano — consapevolmente o no — a isolare, colpevolizzare o controllare la vittima. Possono essere amici, familiari, colleghi: si schierano dalla parte sbagliata, alimentando la spirale tossica.

Un altro comportamento dannoso è quello dei** fauxpology, **le «finte scuse». Frasi come: «Mi dispiace che ti sei offeso», «Se ti sei sentita male, mi dispiace» spostano la responsabilità sulla persona ferita, senza mai ammettere davvero l’errore. Il messaggio sottinteso è: «Il problema sei tu, non io».

Le relazioni tossiche non riguardano solo le coppie: anche in famiglia si possono instaurare dinamiche disfunzionali, spesso scambiate per affetto o premura. È il caso dell’invischiamento tossico, una relazione simbiotica in cui i confini tra genitori e figli si annullano. La madre o il padre si confidano troppo, si aspettano troppo, si intromettono troppo, trasformando il figlio in un «adulto di supporto».

Simile, ma più mirato, è il dumping emotivo: una persona riversa continuamente le proprie emozioni negative su un’altra, trattandola come un contenitore. «Parlare è terapeutico» — dice — ma lo fa sempre e solo a senso unico, scaricando ansia, rabbia, lamentele, senza mai restituire ascolto.

Poi ci sono le relazioni «private» nel senso più letterale: si chiamano** indoor relationship**, e sono rapporti che esistono solo dentro casa. Nessuna uscita, nessuna presentazione agli amici, nessuna foto insieme. Se questa scelta è unilaterale, può sfociare nel** pocketing**: l’altro viene «tenuto in tasca», nascosto, quasi come se ci si vergognasse di lui.

Anche dopo una rottura, il controllo può continuare. Accade con l***’orbiting***: l’ex non parla più con te, ma continua a guardare le tue storie, a mettere like, a farsi notare. È una presenza silenziosa che impedisce di voltare pagina.

Oppure si verifica l’hoovering, quando il manipolatore tenta di «risucchiare» l’ex nella relazione, usando messaggi nostalgici, dichiarazioni d’amore, promesse di cambiamento (salvo poi tornare ai vecchi comportamenti)

Più aggressivo ancora è il fenomeno dello smear campaigning: l’ex parla male di te in giro, cerca di rovinarti la reputazione, di metterti contro gli amici comuni, di farti passare per il «cattivo» della situazione.

Infine, nel tempo dei social, esiste anche la tossicità digitale, e uno dei suoi volti è lo **sharenting: **genitori che condividono compulsivamente foto, video e dettagli dei figli online, spesso senza chiedere il consenso e senza considerare l’impatto sulla privacy e sulla costruzione dell’identità dei bambini.


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