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Le lusinghe del populismo seducono la Polonia

Le vittorie alle recenti elezioni canadesi e australiane hanno alimentato nel centro-sinistra globale un ottimismo prematuro e infondato? I candidati nazional-populisti sono favoriti dall’allinearsi con Donald Trump, o addirittura da un endorsement del 47° presidente e dai suoi accoliti, in primis Elon Mask e JD Vence? Questa è quantomeno l’impressione che scaturisce dalla vittoria di Karol Nawrocki nel ballottaggio per occupare per i prossimi cinque anni palazzo del Belweer, residenza del presidente della Polonia.

Certo è stata una vittoria con il margine di voti più esiguo nella storia delle elezioni presidenziali nel maggior Paese dell’Europa centro-orientale. Dove i poteri del capo dello Stato sono circoscritti al rifiuto di firmare atti legislativi già approvati in sede parlamentare e di rinviarli di fronte alla giustizia ordinaria, ovvero ben minori di quelli del capo di governo nelle due immense democrazie del Commonwealth. E paradossalmente non la si può considerare una sconfitta per i progressisti, che la finale l’hanno vista in televisione, avendo già sperimentato i rigori della manita al primo turno del maggio, dove i due candidati di sinistra raccolsero meno del 10%.

Ma la sconfitta del candidato del centro-destra moderato, e quindi indirettamente del primo ministro Donald Tusk, mostra come anche in Paesi danneggiati dalle attuali politiche della Casa Bianca, e in particolare dal protezionismo commerciale, le lusinghe del populismo continuano a sedurre. Le parole d’ordine della campagna di Nawrocki – 42 anni, storico e direttore dell’Istituto Nazionale per la Memoria (un organismo statale che si occupa dell’eredità della Polonia durante la Seconda Guerra Mondiale) – sono stati quattro NO. All’immigrazione, all’adesione dell’Ucraina alla NATO, alle politiche per promuovere la transizione verde e alla rimozione dei divieti all’aborto. Tutto ciò in un Paese che è cresciuto negli ultimi 20 anni anche grazie all’accoglienza che gli emigrati polacchi hanno ricevuto in Europa, attraverso rimesse e un affievolimento delle pressioni sul mercato del lavoro nel Paese d’origine. Che è entrato nel Patto atlantico nel 1999 e accoglie sul proprio suolo migliaia di soldati di paesi alleati. E che emette quasi 11% del totale europeo di gas di serra, la cui performance nel ridurli negli ultimi due decenni (-9,3%) è stata modesta rispetto ad una media UE di -30,5%, e il cui piano strategico in materia è giudicato inadeguato dalla Commissione.

Con le ovvie differenze nel contesto politico e istituzionale, attitudini e intenzioni simili sono proprie alle destre di Canada e Australia, ma l’elettorato le ha rifiutate. Mark Carney, il banchiere centrale diventato primo ministro solo tre mesi dopo essere entrato in politica, ha saputo convincere gli elettori canadesi del pericolo rappresentato da Trump e dell’importanza di privilegiare l’esperienza, piuttosto che la prossimità al presidente americano e alle sue iniziative (tra cui l’annessione proprio del Canada). Sebbene le elezioni australiane non riguardassero Trump, le turbolenze globali che provoca lo hanno reso un fattore determinante anche Down Under. La strategia di Anthony Albanese di non presentarsi come una figura anti-Trump, ma piuttosto di calma e serenità, ha pagato. I Labour a Canberra come i Liberal a Ottawa hanno rifiutato di lasciarsi andare allo sconforto di fronte all’abisso cui sembravano destinarli i sondaggi pre-elettorali e hanno portato a casa un raro secondo e quarto mandato al potere, rispettivamente.

Non c’è però luna di miele per nessuno dei due. Carney, in particolare, dovrà muoversi rapidamente per garantire la stabilità del suo governo, evitando che sia esposto ad un voto di sfiducia, che innescherebbe nuove elezioni. Altrove il risentimento verso la globalizzazione e i timori prodotti dalla rapidità del cambiamento tecnologico e valoriale rendono più difficile conseguire la vittoria elettorale con politiche centriste sensate. Nel frattempo però i capitali restano immobile, attendendo di capire quali indirizzi prenderà il futuro. Un primo test della capacità di Carney di gestire i rapporti con Trump sarà il vertice G7 a Kananaskis tra 10 giorni.


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