Società

Le donne uccidono in un caso su dieci, e quasi sempre dopo violenze che nessuno ha fermato

Le donne che uccidono sono poche: nel 2021 le responsabili di omicidio sono state solo il 10% (dati Centre for Women’s Justice) dei casi globali. Quasi sempre questi omicidi avvengono nell’ambito di relazioni familiari segnate da anni di maltrattamenti: le ricerche mostrano che una parte consistente delle donne condannate a morte per omicidio ha vissuto una lunga storia di violenza domestica.

Sandra Babcock, professoressa di diritto alla Cornell University, ha studiato circa settanta casi di donne nel braccio della morte tra Stati Uniti, Malawi e Tanzania. «Non esiste un caso senza elementi attenuanti», ha spiegato al Guardian. «Anche nei casi peggiori, e ne conosco di tremendi, ci sono sempre una ragione e una storia che permettono di capire cosa è successo».

In Iran, l’avvocato Hossein Raeesi ha difeso quindici donne condannate a morte, quasi tutte accusate di aver ucciso il marito. Tutte avevano subito violenze e alcune erano state costrette a sposarsi quando erano ancora bambine. Fra queste c’era Zarbibi, nome di fantasia, che a sedici anni, incinta di quattro mesi, uccise il marito tentando di decapitarlo con un coltello. Nei suoi diari scrisse: «La mattina dopo, anche se ero alla stazione di polizia, mi sentivo felice che lui non vivesse più in questo mondo». E ancora: «Libera da lui per la prima volta, mi sentivo leggera come un palloncino che può volare via». Il matrimonio le era stato imposto a tredici anni: «Ero stata data in sposa a qualcuno molto più grande, al culmine della sua forza maschile; libero di trattare sua moglie come voleva, senza alcuna considerazione».

Delle quindici donne seguite da Raeesi, quattro sono state giustiziate. Le altre sono state rilasciate solo perché la famiglia della vittima ha concesso il perdono previsto dalla legge islamica, non perché i tribunali avessero riconosciuto la violenza domestica.

Penal Reform International rileva che nella maggior parte dei Paesi la storia di abusi non viene considerata in modo adeguato nei processi. Spesso non esiste neppure uno strumento giuridico specifico che permetta di tenerne conto. Harriet Wistrich, direttrice del Centre for Women’s Justice, afferma che «le donne che uccidono nel contesto di abusi non stanno avendo processi equi». Nel rapporto pubblicato nel 2021 sottolinea le difficoltà che incontrano in Inghilterra e Galles. «Ci sono molti problemi legati al trauma, alla dissociazione, alla mancanza di memoria, che portano le donne a non essere credute. Le donne violente tendono a essere giudicate più severamente per via di pregiudizi, sessismo e misoginia, perché stanno uscendo dai ruoli considerati accettabili».

Ci sono però decisioni che negli ultimi anni hanno segnato dei passi avanti. Il caso di Sally Challen, nel Regno Unito, ha portato nel 2019 al riconoscimento del «controllo coercitivo» come forma di violenza domestica. In Belize, la scarcerazione di Lavern Longsworth nel 2014 dopo una condanna all’ergastolo ha introdotto la possibilità di considerare la sindrome della donna maltrattata (Battered Woman Syndrome) come elemento di difesa. In Kenya, nel 2021, una giudice ha ritenuto che Truphena Aswani avesse agito in legittima difesa dopo anni di violenze e ha disposto una pena simbolica: un giorno di carcere, quello della sentenza.


Source link

articoli Correlati

Back to top button
Translate »