Ambiente

L’autonomia differenziata e l’unità del Paese

La recente sentenza della Corte costituzionale sull’autonomia differenziata fissa un punto fermo su un tema cruciale: l’unità del Paese. Secondo la Consulta, le regioni a statuto ordinario possono ottenere forme particolari di autonomia come previsto dalla riforma del Titolo V della Costituzione, ma la differenziazione non deve diventare “un fattore di disgregazione dell’unità nazionale e della coesione sociale” e va attuata nel contesto della forma di Stato italiana. La corte ha inoltre precisato che il regionalismo italiano è cooperativo e non duale, ossia non prevede “paratie stagne” che dividano le regioni. Sono affermazioni significative, perché da alcuni anni la spinta verso l’autonomia pareva lasciare sullo sfondo proprio il tema dell’unità.

Uno sguardo alla storia aiuta a comprendere i mutamenti avvenuti. La nascita delle regioni coincide con l’approvazione della Costituzione. Al tempo l’attenzione alla coesione del Paese risulta centrale: fra i più importanti obiettivi della politica economica c’è lo sviluppo del Mezzogiorno, per conseguire l’unificazione economica dell’Italia dopo quella politica. Serve tempo perché l’ordinamento regionale trovi attuazione. Ci sono resistenze da parte della DC, per timore di maggioranze alternative rispetto al governo centrale. Ma sono contrari anche liberali e Movimento sociale. Preoccupati per l’unità politica dello Stato e le finanze pubbliche, attuano un vigoroso ostruzionismo parlamentare. Fra i più critici spicca Giorgio Almirante.

I nuovi enti vengono costituiti nel 1970 puntando su un regionalismo solidale. Per questo in diversi statuti delle regioni settentrionali è espressa grande attenzione per il Sud. In quello del Piemonte si legge: “La regione […] opera per superare gli squilibri territoriali, economici e sociali esistenti nel proprio ambito e fra le grandi aree del Paese, con particolare riferimento allo sviluppo del Mezzogiorno”. In quello dell’Emilia-Romagna si dice che la regione s’ispira “alla necessità di superare gli squilibri economici, sociali e territoriali esistenti nel proprio ambito e nella comunità nazionale, con particolare riferimento al Mezzogiorno”. Potrebbe forse sembrare strano, ma nella prospettiva del regionalismo cooperativo non lo è affatto.

Il cambiamento si delinea negli anni Novanta: emerge la cattiva gestione della cosa pubblica da parte dei partiti politici, da tempo l’intervento dello Stato al Sud ha perso efficienza e sotto la spinta della Lega la questione meridionale viene sostituita da quella settentrionale. Si punta a dare più autonomia agli enti locali e nel 2001 viene riformato il Titolo V, premessa per l’autonomia differenziata. Mentre scolorisce l’attenzione per l’unità del Paese e la solidarietà fra i cittadini, aumenta la concentrazione solo sul proprio territorio. Non molto tempo dopo il Consiglio regionale veneto prova a indire un referendum sul quesito “Vuoi che il Veneto diventi una Repubblica indipendente e sovrana?”, mentre nelle regioni più ricche si fa campagna elettorale puntando a trattenere gran parte delle tasse versate.

Non mancano alcune posizioni critiche. Spiccano le preoccupazioni della Chiesa cattolica, che pure aveva contrastato l’unificazione nell’Ottocento. Giovanni Paolo II promuove già nel 1994 una grande preghiera per l’unità del Paese. In seguito, i vescovi italiani intervengono in più occasioni sul tema. Di recente, la CEI guidata dal cardinale Zuppi ha segnalato che l’autonomia differenziata “rischia di minare le basi di quel vincolo di solidarietà tra le diverse Regioni che è presidio al principio di unità della Repubblica”.


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