L’abuso della parola ‘talenti’ nel lavoro: effetti e soluzioni
Qualche giorno fa mi trovavo nell’aula di un Master HR a tenere una lezione sulla comunicazione interna. Davanti a me avevo una quindicina di studentesse e studenti di età compresa fra i 24 e i 32 anni, in possesso di almeno una laurea triennale ma nella maggior parte dei casi anche di uno o più fra laurea magistrale o master. Qualcuno aveva già assaggiato il mondo del lavoro, sotto forma di stage, di collaborazione con un’azienda, di volontariato. Complessivamente, un gruppo di giovani preparati e motivati. A un certo punto, nella nostra conversazione è comparsa la parola “talenti” (intesa nella sua accezione contemporaneo-manageriale di “giovani lavoratori”, ora ci arriviamo) ed è successo…
Tutta colpa di Matteo…
Prima, qualche passo indietro. La parola talento ha origine greca (τάλαντον) e indica una misura di peso, applicata in genere ai metalli preziosi. Lo slittamento semantico comincia con la famosa parabola dei talenti, contenuta nel Vangelo di Matteo: in breve, prima di partire per un viaggio, un uomo ricco affida cinque talenti a uno dei suoi servi, due talenti a un altro e uno a un terzo. I primi due servi fanno fruttare i talenti e li raddoppiano, mentre il terzo servo, per paura, lo sotterra (oggi diremmo che lo deposita sul conto corrente). Al suo ritorno, il padrone si felicita con i primi due, mentre punisce il terzo con crudeltà, riprendendosi il talento per donarlo a chi già ne aveva dieci e cacciandolo nelle tenebre dove, a scanso di dubbi, “sarà pianto e stridore di denti”. Il significato è chiaro: i doni – e in particolare i doni di Dio – devono essere messi a frutto, usati con coraggio e generosità. Qui, dicevamo, inizia il lungo viaggio semantico di questa parola, che da semplice misura di peso assume un nuovo significato di dono (di Dio) e poi, con una nuova metamorfosi, di attitudine, di capacità innata.
… o di McKinsey?
Ma il viaggio non è finito: fra il diciassettesimo e il diciottesimo secolo, il significato cambia ancora, o, meglio, si amplia. Per metonimia (cioè scambio, in questo caso fra il contenuto e il contenitore, o fra l’astratto e il concreto) “talento” inizia a indicare non la qualità, ma chi la possiede. Già all’inizio del ‘700 l’uso della parola “talent” per indicare una persona, specie nel linguaggio teatrale, è attestato in Inghilterra. “Recentemente la città non ha prodotto alcun nuovo talento”, scrive il giornale londinese The Tatler nel 1710. Da lì, la parola “talento” come sinonimo di persona provvista di grandi doti si diffonderà rapidamente, specie negli ambiti dell’arte e dello sport. E nella seconda metà del ventesimo secolo sbarcherà nel mondo del lavoro, per diventare popolare grazie a uno studio di McKinsey del 1997, intitolato The war for talent. E se all’inizio la ricerca del talento (o dei talenti) poteva persino avere senso, pensata per i settori “knowledge-intensive”, che cioè non hanno altro fattore competitivo se non la qualità dei loro addetti, in breve si arriva alla situazione in cui, come nota con la consueta arguzia l’Economist in un articolo del 2006, “altri lo usano come un sinonimo dell’intera forza lavoro, una definizione così ampia da essere priva di senso”.
Ora possiamo tornare a pochi giorni fa e alla classe del master. Quando la parola “talento” è stata pronunciata, nell’aula è scesa una cappa di preoccupazione: “Nel mondo del lavoro – hanno osservato le ragazze e i ragazzi – sembra esserci spazio solo per i talenti, i fuoriclasse: e noi non pensiamo di esserlo”. È stata un’epifania: ho visto questa parola con gli occhi dei ragazzi e ne ho capito appieno l’assurdità, per almeno tre ragioni.
Non siamo tutti Sinner
Prima ragione. I talenti sono pochissimi: persino in ambiti artistici e sportivi, che sono già il risultato di una selezione severissima, siamo molto cauti nell’usare la parola “talento”. Leo Messi (o il più contemporaneo Lamine Yamal) è un talento, ma non tutti i suoi compagni lo sono (e restano degli ottimi professionisti, non a caso strapagati). Paul McCartney è un talento. Jannik Sinner è un talento (evitiamo adesso di affrontare la sacrosanta questione di quanto il contesto sociale, economico e culturale influisca sul talento, altrimenti non ne usciamo più). Già se guardiamo nel mondo del lavoro, ci vengono in mente dei veri “talenti” fra le persone che conosciamo, cioè senza dire “Steve Jobs”? E quanti? Tuttavia, pretendiamo che tutti i neoassunti (o addirittura tutti i dipendenti, come scriveva profetico l’Economist) si riconoscano nella definizione di “talenti”. Si tratta con tutta evidenza di una cosa falsa, oggettivamente impossibile (i “talenti” sono pochi per definizione), infondata da ogni punto di vista. Così facendo, cioè abusando di questa parola, non facciamo altro che allargare il divario fra il significante e il significato (dico “talenti”, intendo “candidati”), fra le parole e la realtà, una realtà già di per sé complessa, difficile da comprendere, in continuo mutamento. Non un buon inizio. Che ci porta alla…
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