La strategia di rendere possibile l’inverosimile

Donald Trump non è solo un politico o un imprenditore prestato alla politica. È, prima di tutto, un comunicatore decisamente atipico, ma straordinariamente efficace. Per capirlo bisogna uscire dai binari convenzionali dell’analisi politica e addentrarsi nei territori della psicologia cognitiva, della negoziazione e delle scienze della comunicazione. Non è un caso che chi lo liquida come «inadeguato» spesso non comprenda la potenza delle sue parole, il disegno strategico che le guida e gli effetti che producono nel tempo.
Primo elemento da considerare: lo stile negoziale. Trump comunica come negozia. La sua è una strategia di tipo massimalista, basata sul principio per cui «più alzi la posta, più margine hai per limare le offerte e ottenere comunque qualcosa di vantaggioso». Ad esempio, quando dice di voler portare le spese per la Nato dei paesi europei al 5% del Pil, sa che quella cifra è irrealistica, ma gli serve per ottenere comunque un incremento dei contributi finanziari all’Alleanza Atlantica. Non sarà il 5%, sarà forse il 3%: è comunque un successo. In questo senso, ‘spararla grossa’ non è sintomo di ingenuità, ma di astuzia tattica. Trump alza sempre l’asticella, poi retrocede di qualche passo, ottenendo comunque molto più di quanto avrebbe ottenuto con un approccio moderato. Questo ci porta al secondo elemento: la finestra di Overton. In comunicazione politica, la finestra di Overton definisce quelle idee che, in un dato momento storico, sembrano impossibili da realizzare, ma che
col tempo e con la ripetizione diventano prima possibili, poi probabili e infine normali. Trump ha fatto della sua comunicazione un costante esercizio di allargamento di quella finestra. Ha parlato di comprare la Groenlandia, ha detto che il Canada dovrebbe essere il 51º stato americano, ha definito alcuni Paesi «shithole countries». Tutte dichiarazioni che inizialmente suscitano scandalo, ma che, nel tempo, contribuiscono a rendere meno scioccanti posizioni che prima erano considerate tabù. Il meccanismo è semplice e potente: dire l’indicibile, ripeterlo, legittimarlo. Trump è un maestro in questo: introduce temi, ridefinisce limiti, sposta l’asse del dibattito e prepara l’opinione pubblica mondiale eventualmente anche a decisioni e azioni fino a poco tempo fa considerate impensabili.
Terzo elemento: l’efficacia tecnica del suo linguaggio. Secondo Chip e Dan Heath, autori del bestseller di marketing Made to Stick, un messaggio efficace deve rispondere a sei criteri, riassunti nell’acronimo S.U.C.C.E.S.: Simple, Unexpected, Concrete, Credible, Emotional, Stories. Trump li soddisfa tutti. Simple: usa frasi brevi, slogan, concetti basici. Unexpected: rompe le consuetudini, sorprende, scandalizza. Concrete: parla di muri, di numeri, di soldi. Credible: costruisce un ethos fondato sul successo personale e sul linguaggio dell’uomo d’affari. Emotional: tocca emozioni primarie come paure, orgoglio, rabbia. Stories: racconta storie, spesso iperboliche, che parlano di nemici e redenzioni, di America da rifare e da difendere. La sua comunicazione è intuitiva, accessibile e difficilmente ignorabile.
Anche chi lo detesta è costretto a parlarne, e questo, in termini comunicativi, è già una vittoria, una sorta di monopolio dell’agenda mediatica. Infine, l’aspetto forse più disruptive. Trump ha rotto con ogni forma di protocollo e ogni regola base del cerimoniale. Ha trasformato i dibattiti in arene, le conferenze stampa in spettacoli, i tweet in ordini di giornata. Ha delegittimato i media tradizionali, inventato soprannomi per i suoi avversari, parlato direttamente alla sua base senza mediazioni. Ha portato nella politica i codici del wrestling, del reality show e della pubblicità. Per molti questo è un segno di analfabetismo istituzionale. Per altri è la ragione del suo successo: Trump ha decodificato il nuovo spirito del tempo, fatto di attenzione ridotta, polarizzazione e personalizzazione estrema. E di percepito che plasma il reale, fino agli alternative facts, formula coniata nel suo primo mandato.
In definitiva, la comunicazione di Trump è tutt’altro che improvvisata. È il prodotto di una visione chiara, supportata da tecniche consolidate e adattata perfettamente al contesto culturale e tecnologico in cui si muove.
Chi la liquida come cafona o rozza rischia di sottovalutarne la forza pervasiva. Trump non parla alla razionalità, ma al motore emotivo dei suoi elettori. E finché continuerà a farlo con tale precisione, resterà un attore centrale nella politica americana e mondiale.
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