la normalità apparente del male
Ci immaginiamo il crimine come qualcosa che vive lontano, negli angoli oscuri del mondo, tra volti sconosciuti, vite ai margini, periferie degradate. Eppure, troppo spesso il male ha il volto dell’ordinario.
Il crimine non sempre arriva con il rumore del caos: a volte indossa il silenzio rassicurante della quotidianità.
Il vicino di casa sempre gentile. Il padre di famiglia impeccabile. La collega sorridente e insospettabile.
Uomini e donne che sembrano innocui, integri, “perbene” — eppure, capaci di gesti oscuri, manipolazioni sotterranee, violenze invisibili.
È questo che ci destabilizza di più: quando il male si mimetizza nella normalità, quando la brutalità non ha il volto del mostro, ma quello del marito premuroso, della madre amorevole, dell’amico fidato.
Ci sono storie vere che raccontano proprio questo: una moglie abusata per anni, senza mai una denuncia, perché “lui era un uomo stimato da tutti”; una figlia manipolata emotivamente, sotto gli occhi di una comunità che parlava di “famiglia modello”; una vittima silenziosa in una casa dove tutto sembrava perfetto, tranne ciò che accadeva a porte chiuse.
Il crimine sommesso è quello che ci passa accanto ogni giorno, che vive nel condominio, nel palazzo elegante, nelle strade tranquille. E ci sfugge perché non urla. Non insanguina. Ma lascia cicatrici invisibili e profonde.
Per questo dobbiamo imparare a guardare oltre le apparenze, a leggere i segnali nascosti, a non sottovalutare mai la sofferenza che si consuma nel silenzio. Perché la violenza che non si vede è la più difficile da combattere. Ma è anche la più pericolosa. E solo raccontandola possiamo darle un volto, un nome, una voce. Perché il male, quando viene svelato, perde parte del suo potere.
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