Ambiente

la gestione innovativa dei Musei Civici di Venezia

Alla fine, che poi è anche l’inizio di ogni storia e di ogni meraviglia, c’è la cura. Per i figli e il lavoro, una chiave e un’altalena, un capolavoro e la terra: «Mio padre Carlo, capace di tornare dal campo di concentramento di Cottbus, fra Berlino e Dresda, prendeva in considerazione ogni più piccola cosa. In quei due anni aveva tirato la cinghia e anche solo una patata ammuffita o il sorriso di un compagno di prigionia erano preziosi. Aveva imparato quanto tutto avesse senso e ne aveva cura», ricorda Mariacristina Gribaudi in questo mezzogiorno veneziano, con il sole che gioca a nascondino e fa cambiare colore alla Laguna. E lei, che da dieci anni guida la Fondazione dei Musei Civici di Venezia (Muve), ha fatto della cura il mantra di un’azione che è imprenditoriale e artistica insieme.

Piazza San Marco, Procuratie Nuove, ufficio di presidenza della Fondazione Muve, che raggruppa undici musei (Palazzo Ducale; Museo Correr; Torre dell’Orologio; Ca’ Rezzonico – Museo del Settecento Veneziano; Museo di Palazzo Mocenigo Centro studi di storia del tessuto, del costume e del profumo; Casa di Carlo Goldoni; Ca’ Pesaro – Galleria d’Arte Moderna; Museo Fortuny; Museo del vetro di Murano; Museo del merletto di Burano; Museo di Storia naturale Giancarlo Ligabue). Le finestre aprono alla bellezza, dalla Basilica della Salute a San Giorgio Maggiore, un grande tavolo per confrontarsi: «L’ho chiesto io quando sono arrivata – ricorda la presidente -. Il mio mondo è la fabbrica e avevo bisogno di dialogare con le anime dei musei per scegliere insieme progetti e futuro, per conoscere le risorse umane e valorizzarne i talenti». Gribaudi, laurea in Management e master in Business administration, viene dalla fabbrica, prima quella di papà Carlo che produceva cucine e che si era trasferito dal Piemonte in Veneto a inizio anni 70, poi quella del marito, la Keyline di Conegliano (Treviso) che produce chiavi, erede della tradizione della famiglia Bianchi attiva dal 1770 a Cibiana di Cadore, e che conta anche su un museo d’impresa dedicato proprio alle chiavi.

Fabbrica, sudore e acciaio hanno trovato casa fra le tele di Tintoretto e i colori magici dei vetri: «Quindici anni fa, avevo seguito con Luigi Brugnaro, allora presidente di Confindustria Veneto, un progetto per le start up. Ci eravamo conosciuti e stimati. È stato lui, da sindaco di Venezia, a chiamarmi perché voleva che portassi in Fondazione il modello di business che avevo applicato in fabbrica, un’azienda metalmeccanica cresciuta con welfare e cultura». E con i nomi di Adriano Olivetti e Marisa Bellisario che il padre di Mariacristina conosceva bene e dai quali aveva preso spunto: «La prima mezz’ora di lavoro, manager e operai potevano leggere il giornale perché essere informati significa essere liberi. Non me lo dimentico mai, anche se sono passati più di cinquant’anni e, prendendo spunto dall’esempio di mio padre, alla Keyline abbiamo introdotto la conciliazione lavoro-famiglia. I sindacati non capivano cosa stessi facendo ma per me era il solo modo per migliorare l’organizzazione.

Se i dipendenti stanno meglio, producono di più e avviano un processo virtuoso per tutti che porta la fabbrica ad aprirsi all’esterno e ad avere un impatto sulla comunità con mostre, presentazioni, incontri. Fabbrica e comunità si contaminano e crescono». Alla Fondazione Muve è successo qualcosa di simile: «Come la fabbrica spalanca le porte, altrettanto riescono a fare i musei. I musei della Fondazione Muve, che nel 2024 hanno coinvolto più di 45mila persone in decine di attività e sono stati visitati da oltre 2,3 milioni di persone, sono aperti all’esterno perché i musei di oggi sono le fabbriche di ieri. Esempi perfetti sono il museo del tessuto e del vetro, frutto del sudore, della fatica degli uomini e delle donne che ci hanno preceduti. I musei non sono solo spazi in cui andare tre volte nella vita, da bambini, da genitori e da nonni, ma sono la fabbrica del nostro passato, quindi, la fabbrica di oggi non è altro che il museo di domani. Per questo, dobbiamo prenderci cura delle fabbriche e chi conosce la gestione di un museo d’impresa può trasferire le conoscenze nella gestione dell’arte. Se siedono allo stesso tavolo il conservatore e il curatore del museo del vetro, l’imprenditore che lo produce e uno studente di Ca’ Foscari e la Regione Veneto, stiamo scrivendo una pagina del futuro».

Fabbrica e arte paiono lambirsi nell’azione di Gribaudi il cui sguardo, chiaro come il vetro, va oltre le finestre per arrivare lontano: «Il museo è casa, utero materno, spazio in cui star bene, come può succedere al Mariano Fortuny, che è museo per eccellenza perché è casa ed è stato laboratorio e fabbrica. E anche rapporto con il territorio. Venezia è nata perché genti della terraferma l’hanno voluta; la sua gloria nasce da abeti rossi, faggi, larici e roveri che l’arsenale faceva diventare navi per conquistare e commerciare. Venezia deve molto al proprio retroterra e il suo dovere è oggi quello di restituire, che significa per noi, che gestiamo i musei veneziani, immaginare progetti espositivi che portino opere da Venezia al territorio. Ad esempio, una mostra sulle gondole realizzata in Cadore da dove il legname arrivava». Le restituzioni sarebbero anche una manna per decongestionare calli e campielli: «È una nostra preoccupazione e le attività, iniziate nel 2016, al Centro culturale Candiani di Mestre vanno in questa direzione: sono laboratori d’arte ed esposizioni, come quella in programma su Edvard Munch».


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