Salute

La “ferocia” senza motivo dei ragazzi del Triante sullo studente di Milano

Al di là dell’antica cascina a far da simbolico decumano, tutt’attorno si osservano banche e negozi, una piscina comunale, campi da tennis e ogni possibile servizio che si possa immaginare per un quartiere residenziale. Nulla che ricordi i blocchi popolari delle periferie. Qui al quartiere Triante, uno dei più noti della città di Monza sono cresciuti i cinque ragazzi arrestati per quell’aggressione da Arancia meccanica che la notte del 12 ottobre, a furia di botte e coltellate, ha lasciato a terra un ragazzo di 22 anni, studente universitario, dopo averlo derubato di 50 euro. Tre minorenni e due maggiorenni, separati per età da qualche mese. Differenza minima che per i due poco più che 18enni può segnare la strada verso una condanna a doppia cifra. L’accusa: tentato omicidio.

Ma al di là di ciò che saranno indagini, processo e responsabilità individuali, quel che vale e resterà per sempre è la tetra diagnosi della vittima. La leggiamo tutta d’un fiato per come la scrive il giudice nella sua ordinanza cautelare: “Persona offesa rimasto paraplegico all’esito delle lesioni arrecate e con apparati urologico, intestinale e sessuale definitivamente compromessi”. Chissà se quei ragazzi avranno letto queste poche righe.

Chissà se oggi, dopo gli arresti, si fermeranno un istante a domandarsi il perché? Una risposta che allo stato sfugge visto che nulla, a spulciare nelle loro esistenze, emerge a spiegazione. Cinque ragazzi, quattro italiani e uno di origine egiziana. Cinque famiglie, per dirla nel gergo del bravo questurino, “normo-integrate”. Genitori senza alcun precedente penale, come invece tanti se ne trovano nei quartieri dormitorio di Milano. Donne e uomini con mestieri normali, chi bancario, chi impiegato, chi funzionario comunale. Fratelli maggiori diplomati e avviati al mondo universitario. Insomma un’esistenza che all’apparenza scorre limpida con poche e scontate increspature: un divorzio, due delle cinque famiglie lo sono, qualche inciampo a scuola, materie a settembre, un anno da ripetere. Ma che vuoi che sia quando la vita ha appena 17 anni.

Per questo risulta complicato spiegare questa voragine. Complicato lo è stato certamente per i genitori, i quali, quando i figli, dopo essere stati perquisiti, sono stati chiamati a Milano al commissariato Garibaldi-Venezia, davanti ai poliziotti e al dirigente Angelo De Simone non hanno saputo darsi pace. Lacrime compulsive di madri e padri hanno avuto bisogno di un supporto psicologico a mitigare quella che a tutti gli effetti è una colpa, perché altro non può essere per questi genitori. Di quale tipo sia la colpa è altro tema. Di certo, viene spiegato da chi questa indagine lampo l’ha seguita, ci si trova davanti a ragazzi che ben poco sono in grado di discernere il virtuale dal reale, il reel di Instagram dai tonfi sordi dei pugni e dal calore del sangue che resta sul marciapiede. Il gesto mandato in loop come le immagini dei cellulari che sgravano dalla fatica del tempo. Osservarsi da fuori come sdoppiati. Tanto che durante la lunga intercettazione ambientale in commissariato che raccoglie in presa diretta il racconto degli aggressori, uno dei tre minori dice: “Voglio vedere il video, voglio vedere se ho picchiato forte”, ricevendo conforto da un amico: “Tu l’hai picchiato così”.

È il tempo che esce dal ticchettio normale, che si fa selfie esistenziale, come immortalare il verbale di perquisizione: “Eh raga – dice un minore – , però io voglio mettere la storia! Sì metto la storia del foglio, censuro i nomi e scrivo che si vede solo l’articolo”. Il ricorrere “alla violenza fisica in modo del tutto immotivato, quasi come una forma di divertimento”, lo scrive il giudice per le indagini preliminari. Un gesto assurdo da ripetere come in un videogioco. Fino ad arrivare a dire, in quel momento quando l’arresto è ormai vicino, “frà la prossima volta ci bardiamo”. Perché tutto si scrolla, va avanti e torna indietro. Una frase che fa pensare che già altre volte, altre aggressioni sono passate. Perché di certo quel sabato notte non era la prima volta che da Monza il “branco” calava lungo i bordi della movida di Milano.

Del resto il riconoscimento degli aggressori è avvenuto anche dal confronto con alcuni loro fotosegnalamenti. Ecco allora un altro punto che incrina e complica la visione manichea da bianco o nero: famiglie normali non equivale sempre a figli per bene. Sono maranza non sono maranza? Forse lo sono se la bestiale etichetta giornalistica corrisponde al significato di disagio. Perché la spiegazione è il disagio, certamente in questo caso criminale, se quella notte i cinque hanno colpito e non sono scappati e anzi, scrive il giudice, “hanno continuato a intrattenersi nella nota zona, frequentata da clienti di locali notturni, proseguendo la loro serata tra amici”.

Il giudice poi mette in fila comportamenti purtroppo comuni a molti ragazzi. Comportamenti che però non sempre sfociano nei fatti del 12 ottobre. Secondo il giudice del Tribunale dei minori quei ragazzi sono risultati “privi di qualunque forma di empatia rimanendo assolutamente indifferenti rispetto alla sofferenza della vittima” e “non hanno dimostrato di avere compreso la gravità della condotta”, manifestando “una disumana indifferenza”. E così la microspia nella penombra della sala d’attesa del commissariato registra l’ennesimo colpo d’accetta alla voragine, quando un minore ricorda il commento lasciato a un video su Tik Tok della europarlamentare della Lega Silvia Sardone rispetto sei accoltellamenti in una notte: “Hai visto? Sai il video su Tiktok della Sardone? Ha detto che a Milano ci sono stati sei accoltellamenti in una notte, io nel commento le ho scritto il settimo non l’hanno ancora scoperto, te l’ho pure mandato”.

Mancanza di empatia e indifferenza, dunque. Vale qua e ora nel caso di tentato omicidio, ma vale in generale. È un binomio che spesso i genitori intuiscono nascere e crescere. Una devianza che puzza di senso di colpa e come ogni senso di colpa è molto meglio nasconderlo dietro a una vita di lavoro e di normalità apparente che poi produce “quell’assenza di una benché minima resipiscenza per i comportamenti assunti”. Perché non c’è senso morale in frasi del genere: “Dalle telecamere hanno ricostruito l’accaduto, però non so se si vede il video dove lo scanniamo (…). Magari quel coglione è ancora in coma, domani schiatta (…). Ma speriamo bro’, almeno non parla!! Te non hai capito, io gli stacco tutti i cavi”. E’ un deserto di coscienza, oltre al quale resta solo la tetra di diagnosi della vittima, e che ora mette sotto accusa il sistema: quello della giustizia minorile e civile, e quello dei servizi sociali.


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