Salute

la critica si inchina, ma è davvero necessario?

Come per ogni film di Wes Anderson anche per La trama fenicia è scattato l’ennesimo rito estatico con tanto di sacerdoti e vestali della critica. Risulterà sicuramente scortese, ma la sensazione è che dentro al solito lezioso tran tran estetico retrò (esasperata e reiterata ricerca simmetrica nell’inquadratura, attimi di bizzarra sospensione e sorpresa tra personaggi, colorazioni pastello e oggettistica vintage) non sia rimasto più nulla di urgente e necessario da raccontare. In una imprecisata zona dell’est Europa nel 1950 l’infingardo spregiudicato uomo d’affari internazionale Tsa Tsa Korda (Benicio del Toro) sopravvive per la sesta volta a un attentato al suo jet privato.

A volere il suo male è una specie di elegante cricca global-finanziaria che cerca con ogni mezzo commerciale e spionistico di farlo finire economicamente in rovina (sembrano le sanzioni dell’Europa a Putin ndr). In particolar modo questi eleganti signori sabotano un affare di Korda teso a costruire non si capisce bene quale complesso impianto di tunnel e dighe per mezza Europa. Una situazione di pericolo che, al sicuro nel suo fosco maniero con servitù grembiulata, spinge Korda a nominare sua unica erede la figlia femmina Liesl (Mia Threapleton), suora che fuma la pipa in attesa di prendere i voti, e a cercare di convincere una manciata di bislacchi ed eccentrici soci in affari a “coprire il gap” indotto dai subdoli agenti esterni. Partirà con la sostenuta Liesl e un timido entomologo al seguito (Michael Cera), poi rivelatosi una spia, per un lungo periplo tale da incontrare e convincere tutti i suoi soci e sventare nuovi attentati contro di lui. Il cinema umoristico e fiabesco di Anderson prosegue il suo inerziale percorso compositivo aggiungendo un’altra manciata di figurine senza peso specifico, contorni di buffe sagomine da cartoni animati (per questo Fantastic Mr.Fox e L’isola dei cani rimangono i suoi capolavori). Solo che, come sempre, la sensazione è che invece di trovarsi di fronte ad un fine esteta ci si pari davanti un bambino che riversa sul tavolo il suo saccone pieno di giochi. Scatole, scatoline, scatoloni.

Tutto rigidamente misurato e calibrato, tutto programmaticamente identico a se stesso come in un’estenuante performance di bella calligrafia e di cataloghi patinati di interior design. Al centro il solito conflitto edipico ancorato ad una cupa rognosa insensibilità paterna e ad una stramba cocciutaggine filiale. Figura paterna che qui ha pure una coscienza (Korda sogna sequenze in bianco e nero, sorta di limbo giudicante dove c’è pure Dio) e che si muove meccanicamente tra la spy story e il survival movie. Peccato però che ad ogni capitolo che segue Anderson ci parcheggi nelle micidiali secche della noia, ci faccia attraversare luoghi asfitticamente sublimati, ci obblighi ad una personale bizantina impossibile estetizzazione del dettaglio.

E poi la domanda delle domande, quella che ci qualifica agli occhi dei fan come degli insensibili ignoranti: ma riproporre ogni volta tutto questo sbrodolamento ossessivo di star (Tom Hanks, Bryan Cranston, Jeffrey Wright, Mathieu Amalric, Charlotte Gainsbourg, Scarlett Johansson, Benedict Cumberbatch, Willem Dafoe, il sempiterno Bill Murray, tra gli altri) per piccolissime parti, insignificanti battute (povero F. Murray Abraham), segnaposto al tavolo dell’amicizia extrafilmica, non è che cela l’impossibilità del cinema di Anderson di esistere a livello strutturale e filosofico senza la gomitata al vicino di sedia (addormentato), il gridolino di giubilo per la presenza importante, il guarda guarda chi è quello in canottiera che fa canestro alla cieca (Cranston) in una galleria davanti al vagone di un treno? Girato negli studi Babelsberg di Berlino (in violazione alle future supposte norme di Trump in materia produttiva ndr).


Source link

articoli Correlati

Back to top button
Translate »