Kevin Braheny Fortune :: Le interviste di OndaRock
Schivo, parco nelle esibizioni e nella produzione discografica, lo statunitense Kevin Braheny Fortune, classe 1952, riluce, nonostante tanta ritrosia, come uno dei tre grandi rinnovatori dell’ambient provenienti da Los Angeles, insieme agli amici e colleghi Steve Roach e Michael Stearns, un terzetto di compositori meditanti che, a partire dalla fine degli anni 80, ridefinì il genere secondo un’estetica proveniente dai paesaggi della wilderness. La natura incontaminata e quella desertica, cercate e sperimentate nel suo percorso di formazione, gli ispireranno uno stile tutt’altro che selvaggio; buona parte delle prove da studio, a partire dall’imprescindibile esordio “Lullaby For The Hearts Of Space” del 1980 e fino ai lavori nel nuovo millennio, si caratterizzano per un approccio di estatica melodiosità, un abbandono sognante in cui fa capolino, in stretto legame con un’oppiomane elettronica analogica, il sax padroneggiato dal nostro. Dei tanti protagonisti dell’ambient nordamericana, egli è tra quelli con la maggiore competenza musicale – teorica e tecnologica – evidente sia in dilatati tour de force di space music come anche nella solida scrittura della healing music contenuta in “Channeled Chakra Balancing” del 2009. Nell’esercizio della dolcezza, Braheny ha accolto il Mistero, facendosi tramite di voci inudibili ai più, tradotte nel linguaggio strumentale di un’ispirazione profonda al punto da risuonare insondabile.
Kevin partiamo da un dettaglio: perché hai aggiunto al tuo cognome la parola “Fortuna”?
Devi sapere che sono un canalizzatore con il mondo metafisico: il nome “Fortune” mi è stato conferito durante un’esperienza di trance. Però ho comunque mantenuto Braheny al centro.
La squisitezza del tuo sax soprano nell’album “Lullaby For The Hearts Of Space” impone di chiederti quali sono i tuoi sassofonisti di riferimento.
Ho una formazione classica e ho suonato jazz più che ho potuto. Le mie influenze sono, tra i tanti, Wayne Shorter, Dewey Redman, Bernie Maupin e, ovviamente, John Coltrane.
La tua formazione Classica è evidente nell’amore per la struttura, a differenza di molti altri compositori ambient.
Le prime influenze sono state Prokof’ev, Musorgskij, Skrjabin, Rachmaninov e Rimskij-Korsakov. Poi ci sono stati Beethoven, Chopin, Dvořák e Grieg. Come suonatore di strumenti a fiato, mi sono sempre trovato a mio agio nell’universo della melodia. Quello che amo più di tutti è certamente Ravel: ancora oggi resto stupito dalle sue orchestrazioni. Anche Satie, Debussy e Fauré sono state figure importanti per me: il loro approccio impressionista ha sviluppato la mia capacità di convogliare l’energia nella musica.
Cosa ricordi del tuo apprendistato presso il guru dell’elettronica Malcolm Cecil, cofondatore del seminale duo Tonto’s Expanding Head Band?
Uomo brillante e talentuoso musicista. A partire dal 1975 ho passato un bel po’ di tempo con lui, aiutandolo a costruire il suo TONTO (ovvero The Original New Timbral Orchestra). Ero appena arrivato in città ed, essendo lui anche un abile produttore, ebbi modo di accedere alle session di registrazione per nomi come gli Isley Brothers. Non ti dico quanto fosse stupefacente vedere lui e gli altri tecnici al lavoro in studio. È stato allora che ho cominciato a prendere dimestichezza con quelle enormi consolle mixer. Quanto abbiamo riso, giocando ad alzare e abbassare le mani alla maniera del Tai Chi per regolare i canali!
Un altro nome di alta caratura ma sconosciuto ai più è quello di Serge Čerepnin.
Amico e collaboratore di lunga data. Ora vive in Francia, ma ci sentiamo quasi ogni settimana. L’ho conosciuto nello stesso periodo in cui lavoravo con Malcolm. Da lì è iniziato un rapporto di collaborazione per la costruzione di sintetizzatori. Ha creato un meraviglioso gruppo di moduli di sintetizzatori analogici che uso ancora oggi. È stato anche un compositore e violista d’avanguardia, discendente di due famosi compositori russi, Nicolai Čerepnin (il nonno) e Alexander Čerepnin (padre), mentre la madre, Ming, era una famosa concertista cinese. La sua sensibilità sperimentale si è orientata verso la composizione di brillanti strumenti elettronici che hanno permesso ai musicisti di creare suoni complessi a partire da elementi molto semplici.
A differenza della maggior parte dei compositori ambient, la tua discografia è assai parca.
Nel ‘92 ho registrato “Passion’s Dance”, un album che la Hearts Of Space Records ha rifiutato. Nello stesso periodo mi sono ammalato gravemente. Non riuscivo quasi a muovermi. Durante i disordini di Los Angeles ricordo che ero sopra il tetto del mio studio di registrazione, nel tentativo di evitare che le braci ardenti provenienti dagli edifici in fiamme del circondario lo rovinassero irreparabilmente. Mi resi conto allora che, per quanto avessi amato Los Angeles e apprezzato tutto ciò che mi aveva fatto sperimentare, non era il posto giusto per la mia guarigione. Mi trasferii dunque nell’area di San Francisco, così da affrontare con la giusta determinazione il processo di guarigione. Ma ero davvero troppo malato per fare qualsiasi cosa: continuavo a comporre ma non riuscivo a registrare nulla.
Tranne i due album assieme a Tim Clark…
Esatto: “Rain” e “The Spell”. Ma la mia energia era ancora molto bassa e ci sono voluti 20 anni per superare i sintomi peggiori. Ho sempre voluto finire di mixare “Passion’s Dance” e alla fine ci sono riuscito, pubblicandolo su Bandcamp cinque anni fa. Ho ripreso a pubblicare a partire dal 2009, con “Channeled Chakra Balancing”, lavoro sperimentale di musica canalizzata sul tema dei punti energetici del corpo umano. E in ultima ho cominciato a canalizzare “letture musicali” personalizzate; con il permesso delle persone che me le hanno commissionate, ne ho pubblicate cinque, inserendole nella categoria “Dreamwalker Meditation Music”. Chi volesse saperne di più può visitare il mio sito internet kevinbrahenyfortune.com.
Di Clark, cosa puoi dirmi?
Un caro amico e un meraviglioso compositore. Ho sentito per la prima volta la sua musica nella produzione radiofonica della ZBS Media “Le incredibili avventure di Jack Flanders”. Era il ’78 o giù di lì. Mi piacque la sua capacità di creare un ambiente sonoro in perfetta sintonia con la narrazione. Nel ’95 stavo per fare un concerto a Scottsdale, in Arizona, e Stephen Hill della Hearts Of Space mi suggerì di chiamarlo, visto che viveva da quelle parti. Abbiamo così tenuto un primo concerto insieme e scritto pure un paio di pezzi. Già in quella prima occasione, ci caratterizzava un’incredibile sintonia: se io andavo da qualche parte con la melodia, lui sembrava sempre sapere dove stavo per andare, e quando lui prendeva una nuova direzione, io riuscivo a seguirlo con totale naturalezza. La quasi totalità dei pezzi in “Rain” e “The Spell” sono stati improvvisati e registrati alla prima take. Ma non sono pigro, eh! Basti pensare che, solo per il compositore Paul Avgerinos, ho preso parte a 12 dei suoi album.
Hai nominato Hill: suppongo che il tuo album “Lullaby For The Hearts Of Space” sia un omaggio al suo programma radiofonico di divulgazione musicale.
Sì. Stephen è un pioniere nella divulgazione della musica ambient/spaziale. Lui e Anna Turner hanno condotto il programma radiofonico “Music From The Hearts Of Space”, inaugurato a Berkeley, in California, nel ’73, ovvero la radio notturna al suo meglio. Come molti miei colleghi coetanei, grazie a loro sono stato presentato a quel vasto pubblico di ascoltatori che bramavano una nuova musica contemplativa, una musica di espansione della coscienza. Nel 1980 Stephen e Anna avevano organizzato una giornata di raccolta fondi per il programma: io dovevo eseguire la musica finale della giornata, annunciata come “una ninna nanna per inaugurare la fine della notte”. Servendomi del synth Serge, improvvisai la musica che intitolai, appunto, “Lullaby For The Hearts Of Space”. La prima versione discografica uscì su “Perelandra” nel 1984; Stephen tenne in scaletta la seconda versione per i sei anni successivi, finché non mi disse: “Se non hai intenzione di pubblicarla tu, vorremo farlo noi”. E questo fu l’inizio dell’etichetta Hearts Of Space Records.
Hai menzionato il synth Serge (o Serge Modular Music System), strumento decisamente peculiare.
Nel ’75 Serge (Čerepnin) aveva progettato per Malcom degli oscillatori stabili alla temperatura, chiamati New Timbral Oscillator o NTO. Ho costruito allora il mio sintetizzatore Serge, il “Mighty Serge”, e l’ho usato nella maggior parte delle registrazioni successive. Uno dei pezzi migliori in cui l’ho usato è, appunto, il brano “Lullaby For The Hearts Of Space”. L’anno scorso ho pubblicato due pezzi d’archivio fatti col Serge, “Dragon Waits” e “Enchanter’s Isle”. Il primo è al 100% Serge e il secondo lo è al 95%. Ho appena finito di evocare un pezzo su commissione, dove la richiesta esplicita era che fosse suonato esclusivamente con quel synth. A breve lo caricherò su Bandcamp.
Che mi racconti allora del Mighty Serge, da un punto di vista tecnico?
È uno strumento “modulare”, in quanto contiene molti moduli che svolgono funzioni uniche: oscillatori che producono forme d’onda, filtri che colorano le forme d’onda e altri tipi di controllori di tensione. Molti strumenti a tastiera, per esempio, hanno suoni pre-programmati, ma con il Serge si costruiscono gli eventi sonori da questi moduli in base a ciò che l’utente vuole che suoni, da zero, si potrebbe dire. Ho continuato a occuparmi di sintetizzatori Serge fino a oggi, progettandoli, costruendoli e restaurando i vecchi modelli.
C’è il tuo zampino anche nella creazione dell’EWI.
L’EWI (o Electronic Wind Instrument) è stato inventato dal progettista di sintetizzatori Nyle Steiner. Nel 1983 avevamo condiviso una data non ricordo dove; lui, essendo anche un trombettista, suonò il suo EVI, (Electronic Valve Instrument). In seguito, lo contattai chiedendogli se per caso ne avesse creato anche una versione per musicisti di aerofoni ad ancia. Rispose che ci aveva effettivamente pensato e mi proposi di aiutarlo a costruirla. Costruii quattro prototipi per lui e lui, in cambio, ne costruì uno per me. Uso ancora il suo: ha un’espressività che adoro. Per me, sintetista e suonatore di strumenti a fiato, si è trattato di un’accoppiata perfetta.
Michael Stearns mi ha raccontato che lui, tu e Steve Roach avete amato il libro di Edward Abbey “Desert Solitaire”, il quale ha determinato l’album collettivo omonimo del 1989.
Sono un amante della vita all’aria aperta; le descrizioni dei deserti e le esperienze in quei luoghi di Abbey sono state per me una lettura arricchente e foriera d’ispirazione.
Hai visitato l’Arches National Monument nel sudest dello Utah, il luogo descritto in “Desert Solitaire”?
No, ma ho sempre avuto una predilezione per le zone desertiche; già da prima del libro, mi ero innamorato dei deserti del Mojave e di Anza-Borrego, in California. Su tutti, il mio prediletto è il Joshua Tree. A quei tempo, negli anni 70 e nei primi 80, non incrociavi quasi nessuno. Ho trascorso lunghi periodi lì a fare escursioni e a meditare dentro le grotte. Dopo l’uscita dell’album “The Joshua Tree” degli U2, nel bene e nel male la situazione è cambiata, facendo di quei luoghi una meta del turismo musicale.
Cosa fa di Steve uno dei più significativi compositori ambient degli ultimi decenni?
Dal mio punto di vista, il suo approccio alla musica è puramente istintivo, un fatto che lo porta a creare dei lussureggianti mondi sonori, degli ambienti che ti chiamano a sé, a livello vibrazionale. Più in generale, ammiro il fatto che, come artista, vuole mettersi sempre in gioco.
Klaus Schulze ammetteva il suo approccio da amatore all’elettronica. Come spieghi il fatto che sia comunque riuscito a contribuire all’evoluzione del genere?
Klaus, nonostante una comprensione limitata dell’elettronica, ha comunque creato mondi e momenti di vibrazioni sonore che facevano parte della sua visione. Amavo il fatto che sposasse l’elettronica con gli strumenti acustici. A ogni modo non credo abbia molta importanza quali siano i mezzi di cui disponiamo: ciò che conta è l’anima del compositore. Quando il compositore riesce a impiegare strumenti con cui non ha molta dimestichezza, dando vita a una musica che sia degna di un ascolto prolungato, è lì che fa la differenza. E Klaus, artefice di una visione personale e forte, è stato indubbiamente fonte di ispirazione per molti di noi.
Se penso a un album come “Perelandra” è inevitabile dedurre una tua fascinazione nel mondo della fantascienza. Quali i titoli letterari a cui sei maggiormente affezionato?
Come avrai intuito, “Perelandra” è anche il titolo del secondo libro di una trilogia scritta da C.S. Lewis, un contemporaneo di J.R.R. Tolkien e, sì, amo i libri di fantascienza e di fantasy fin da quando ero bambino. Il primo libro di fantascienza che ho letto è stato “Io, robot” di Isaac Asimov. Oltre a questo autore, a Lewis e Tolkien, aggiungerei anche Robert Heinlein, H.G. Wells, Arthur C. Clark, Ursula LeGuin, Philip K. Dick, Frank Herbert, ma potrei andare avanti per un bel pezzo.
Cosa ami, di fantascienza e fantasy?
Sono generi che mi portano in mondi in cui, evidentemente, mi piace vivere, per un po’ di tempo. Libri diversi hanno risuonato con me in momenti diversi della mia vita. Il fulcro di tutto è esplorare la coscienza mediante quel “cosa succederebbe se?”. Sono libri, se vuoi, anche d’evasione, ma che riescono a ispirarmi poiché, quando li leggo, la mia mente crea una colonna sonora per ogni storia.
A dispetto della maggioranza dei tuoi colleghi, buona parte dei tuoi album nel nuovo millennio vantano la freschezza compositiva delle tue prime registrazioni.
Alcune delle mie scelte musicali sono probabilmente connesse al mio ADHD, cioè il disturbo da deficit di attenzione e iperattività. Questa cosa ha anche degli aspetti positivi, poiché mi spinge a esplorare molti tipi diversi di musica e di approcci creativi. Naturalmente ha anche i suoi lati negativi, rendendomi ad esempio difficile portare avanti dei progetti, a meno che non stia collaborando con altre persone: in quel caso rimango sempre in carreggiata.
“Liminal Space” (2019), è un esempio eclatante di questa nuova giovinezza creativa.
Volevo rappresentare, appunto, lo spazio “liminale”, intendendo uno stato intermedio, qualcosa in transizione tra due luoghi ma che non si trova pienamente in nessuno dei due. È il luogo dei sogni e incarna la scintilla della creatività. I brani sono stati creati per lo più attraverso improvvisazioni “one-take” nel corso di un lungo periodo. Ho selezionato quelli che incarnavano con maggiore compiutezza questa sensazione di attesa e di sospensione. Si tratta certamente di lavori più minimali rispetto al resto della mia produzione, riflessioni completamente spontanee.
Quali sono le reali potenzialità della così detta “healing music” (“musica di guarigione”)?
Per me è iniziato tutto durante il periodo che ho trascorso al Continuum Movement, la scuola fondata da Emilie Conrad e focalizzata sull’esplorazione delle capacità naturali di guarigione cellulare del corpo attraverso il movimento, una serie di attività basate sui micromovimenti, a livello cellulare. Il mio ruolo al tempo era di creare musica e suoni che aiutassero a facilitare queste esplorazioni, partecipando in qualche misura anche ai movimenti e all’insegnamento. Devi sapere che ho la capacità di percepire i campi energetici intorno alle persone: questo mi è stato di grande aiuto per comprendere come i suoni che producevo influivano sul corpo delle persone mentre si muovevano come anche quando restavano immobili. Osservavo non solo i campi energetici dei singoli individui, ma anche il campo energetico prodotto da un gruppo di più persone. Così ho sviluppato una sorta di linguaggio sonoro basato sul circuito di feedback energetico tra un gruppo e me. Col tempo, imparai cosa sarebbe riuscito a influenzare i vari chakra e come muovere l’energia attraverso determinati suoni. Avevo appena costruito il Mighty Serge e lo usai come strumento principale per i quattro anni successivi. Il secondo pezzo che compone “Lullaby For The Hearts Of Space”, e cioè “After I Said Goodnight”, è stato registrato dal vivo proprio durante una lezione al Continuum.
Come spiegare alle nuove generazioni la rilevanza della tradizione tantrica, di cui sei esperto conoscitore?
Gli insegnamenti tantrici sono più presenti oggi di quanto non lo siano mai stati: si va dai testi antichi agli scritti moderni, orientali quanto occidentali. Tuttavia, sebbene l’apparato bibliografico sia generosissimo, il Tantra non si apprende solo dai libri ma, soprattutto, attraverso l’esperienza. Ed è molto più di una maniera di fare l’amore, come credono i più. È un modo di essere. È un modo di scovare e incarnare il Divino in ogni cosa. È percepire la Luce in ogni persona che si incontra. È usare l’energia della forza vitale per facilitare l’apertura al Divino. I ragazzi di oggi devono affrontare sfide che 50 anni fa non potevamo neanche immaginare: siamo bombardati da una quantità infinita di contenuti che non sono affatto edificanti. Immersi in un mondo stipato di negatività, spetta a tutti noi evitare di reagire con azioni insensate. La vera sfida è mantenere alta la gioia e la capacità di apprezzamento per quanto di buono sperimentiamo, momento dopo momento.
C’è una differenza sostanziale tra felicità e gioia. Che cosa è in grado di far crescere la gioia dentro di te?
Sì, c’è una differenza tra felicità e gioia, in quanto il contrario della felicità è la tristezza, mentre la gioia vanta un’ampiezza che comprende tutte le emozioni. Si può essere tristi per la scomparsa di una persona cara ma percepire al contempo la gioia del rapporto avuto con lei. Ho una prospettiva un po’ particolare a riguardo, poiché ho avuto due esperienze di pre-morte. Entrambe le volte mi sono sentito attraversato da sensazioni di gioia e benessere. Dunque, quando sono un po’ giù, faccio del mio meglio per attingere al ricordo di quelle sensazioni, così da risuonare a una vibrazione più alta.
Uno dei tuoi album più ambiziosi è “Secret Rooms” (1990), il quale vanta un approccio narrativo poco battuto nella tua discografia.
È uno dei miei album preferiti. L’ho affrontato in modo più classico, ascoltandolo nella mia testa, scrivendone le partiture per poi suonarle e registrarle, a mente fredda.
Ho la sensazione che ci sia una storia, dietro questo lavoro.
L’idea è nata da un fatto di cui sono stato testimone un giorno, camminando in una strada trafficata della mia città. C’era quest’uomo cieco che però non si avvaleva del bastone bianco per spostarsi, ma emetteva particolari suoni con la lingua. L’ho osservato per un po’ mentre si spostava con disinvoltura tra le persone e i vari ostacoli che gli si paravano davanti e, alla fine, mi sono avvicinato per chiedergli se stava effettivamente facendo quello che avevo supposto. E in effetti, sì, lui stava camminando attraverso una eco localizzazione che produceva mediante quei suoni specifici prodotti facendo schioccare la lingua. Mi spiegò che lo faceva da quando era bambino e da lì è partita una bella conversazione.
Cos’hai dedotto da quell’incontro?
Mi ha fatto pensare a come i suoni definiscono lo spazio in cui ci troviamo e, conseguentemente, a come ogni spazio influenzi i nostri pensieri. Per esempio, anche tenendo gli occhi chiusi, si hanno pensieri diversi quando ci si trova in una stanzetta soffocante rispetto a quelli che si hanno quando ci si trova in una cattedrale.
In che modo questa conclusione ha influenzato la tua musica?
Ha conferito un inedito significato alla mia space music, che non è più necessariamente interessata allo spazio cosmico. Per me la consapevolezza spaziale implica la Coscienza. All’epoca avevo iniziato a operare nell’ambito delle canalizzazioni, sicché le “stanze” a cui fa riferimento il titolo rappresentavano anche le dimensioni in cui avrei incontrato determinati spiriti. Uno dei pezzi che meglio rappresenta quelle situazioni è, appunto, “Visited By Spirits”.
“Secret Rooms” è molto di più, da un punto di vista della sperimentazione tecnologica.
Ho progettato e costruito un sistema di registrazione binaurale 3D mobile, collegato a delle piccole capsule contenenti dei microfoni a elettrete da inserire nei canali uditivi; con questa apparecchiatura, ho camminato nelle stazioni ferroviarie, al Dodger Stadium, in vari luoghi. Il brano di apertura, “Passage 1”, è stato il mio primo passo verso la porta d’ingresso dei Crystal Studios di Los Angeles. In ogni brano, quel che senti è la traduzione di me che cammino verso e dentro una stanza diversa. “Things Seen And Unseen”, se non erro, ritrae una situazione dove io ero seduto in studio mentre due amiche si muovevano e mi ballavano intorno.
Musica a parte, qual è il grande amore della tua vita?
Ci sono molti “grandi amori” nella mia vita: amo far visita a mia sorella Mary, amo il buon cibo, guidare la motocicletta e amo il posto in cui vivo, tra le montagne della California settentrionale. Citandoti il brano “My Favourite Things”, ti direi che “these are a few of my favorite things” (“queste sono alcune delle cose che prediligo”).
Nei Nineties l’elettronica ha vissuto, negli States come anche in Europa, un vero e proprio Rinascimento. Ci sono dei nomi che ti hanno colpito
Adesso come adesso, non mi viene in mente nessuno. Evidentemente, la mia memoria non è un gran che. Più recentemente, però, mi ha colpito il giovane Jacob Collier.
Le nuove generazioni sono scarsamente interessate a fruire musica con una qualità del suono medio-alta: la ragione sta nel fatto che impiegano i telefoni cellulari come noi impiegavamo gli hi-fi?
Nell’audio di consumo c’è sempre stata un’ampia gamma di possibilità sonore. Io, a esempio, ho iniziato con un piccolo lettore 45 giri. Nel 1958, mio fratello Dan era in Marina e mi mandò dal Giappone una radio a transistor. All’epoca era una novità assoluta. Ricordo che la nascondevo sotto il cuscino e la ascoltavo così, di notte. La gamma di dispositivi che va da apparecchi di riproduzione scarsi ai sistemi audio più sofisticati è sempre esistita. Oggi la musica viene ascoltata tramite mp3, che, dal punto di vista qualitativo, è ai livelli di una musicassetta, e ulteriormente declassata, dalla modalità Bluetooth in modalità streaming. Tutte modalità economiche di ascolto, predilette dalla massa. Ovvio: ascoltare un suono a pieno spettro attraverso diffusori che permettono di sentirlo nel proprio corpo è un’altra esperienza. Ma i sistemi audio veramente buoni costano. Ho avuto la fortuna di lavorare come tecnico del suono per importanti studi di registrazione dove operavo su straordinari suoni a pieno spettro, sicché so quel che dico. E so anche cosa si prova a stare dietro il sipario del palco mentre suona la Chicago Symphony Orchestra: è in quei momenti che capisci che non c’è niente di paragonabile alla realtà.
Qual è l’aspetto più straordinario dell’essere un artista?
La musica è prima di tutto una questione trasformativa e amo prendere coscienza delle trasformazioni che avvengono dentro di me. Questo genere di consapevolezza permette di avvertire la nostra connessione con il Sé Superiore.
(1 maggio 2025)