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Josh Ritter – I Believe In You, My Honeydew: Il valore della coerenza :: Le Recensioni di OndaRock

Josh Ritter è non solo un bravo compositore ma anche un abile romanziere (ha pubblicato vari libri), due qualità che gli hanno garantito uno stile narrativo alquanto apprezzabile, al punto che alcune delle sue canzoni sono entrate nel repertorio di colleghi illustri, come Bob Dylan e Joan Baez.
Con all’attivo tredici album pubblicati nell’arco di ventisei anni e una lunga serie di canzoni spesso pacate ma mai banali, Josh Ritter è una delle voci del country-rock americano più credibili anche se, purtroppo, non baciato dalla fama che ha accarezzato molti suoi colleghi. Nell’ultimo album “I Believe In You, My Honeydew”, gioca e scherza con un ipotetico calo dell’ispirazione, un problema che negli ultimi dieci anni il cantautore ha arginato attraverso la collaborazione con altri artisti (da Jason Isbell produttore del buon “Fever Breaks” a Bill Frisell per il mini-album “Heaven, Or Someplace As Nice”).

Che a questa rinascita spirituale e artistica di Josh Ritter abbia contribuito il ritorno della Royal City Band in studio di registrazione è un altro segnale positivo. Quello di Josh Ritter con la propria musa è un dialogo sincero. Con consapevolezza e riserbo l’autore ne affronta il peso nella toccante ballata acustica “Truth Is A Dimension (Both Invisible And Blinding)”, un brano che diventa centro nodale di un disco dove il tono confessionale spesso prevale (“I’m Listening”), anche quando Ritter mette in primo piano un’attitudine pop mai nascosta o svenduta (“Wild Ways”).
Come tutti gli album pubblicati dopo l’ottimo “The Beasts In His Tracks”, anche “I Believe In You, My Honeydew” ha i suoi alti e bassi: se in “Fever Breaks” era la produzione a tenere salda la qualità del progetto, qui l’elemento di coesione è la scrittura, decisamente più ispirata rispetto a dischi sonnacchiosi come “So Runs The World Away” e “Spectral Lines”.

Tra citazioni del sound di New Orleans (“Honeydew”), incursioni rock-blues non del tutto riuscite (“Kudzu Vines”) e un fin troppo esplicito richiamo a Mark Knopfler nell’ordinaria ma vivace “Noah’ Children”, l’autore americano mette a segno una splendida pagina di gospel-country in stile The Band (“The Wreckage Of One Vision Of You”), una vibrante “You Won’t Dig My Grave”, un suggestivo cosmic-country a base di accordi di steel guitar (“Thunderbird”) e una poetica “The Throne” che scivola su suggestive note d’organo, calando il sipario su un album che brilla per coerenza e ispirazione.

14/11/2025




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