Basilicata

Joe Oppedisano al Corigliano Calabro Fotografia

Joe Oppedisano dalla Calabria a New York e ritorno al Corigliano Calabro Fotografia. Il fotografo di fama internazionale ospite del festival calabrese con una mostra


Due ritratti, due volti, due maestri e un tempo lungo ventidue anni. Si potrebbe riassumere qui il manifesto della ventiduesima edizione Corigliano Calabro Fotografia, le cui esposizioni resteranno aperte nel Castello di Corigliano per tutto gennaio. Ma non basta. Se si guarda il manifesto dell’edizione 2025 da una parte c’è un ritratto dello stesso luogo realizzato per la prima edizione dal grande maestro scomparso Gianni Berengo Gardin, dall’altra una foto realizzata da un altro grande maestro del ritratto, Joe Oppedisano.

JOE OPPEDISANO E LO SCATTO OMAGGIO A BERENGO GARDIN AL CORIGLIANO CALABRO FOTOGRAFIA

La cosa, però, se vogliamo ancora più emozionante, è che la donna fotografata da Oppedisano è la mamma della donna ritratta da Berengo Gardin. Un fil rouge emotivo ed emozionale che sta in un unico manifesto e che sottolinea quanto Corigliano Calabro Fotografia sia diventato un appuntamento importante e prestigioso per l’arte dell’immagine.

LA FOTOGRAFIA CHE SPAZIALIZZA

Joe Oppedisano crea una fotografia che “spazializza” il carattere dei soggetti, trasformando il ritratto in un’esperienza che dilata il tempo e lo spazio, proprio come il manifesto di questa edizione del festival calabrese. Una fotografia che sembra evocare i temi della post-modernità per la sua capacità di andare oltre i confini fisici e tecnici. La sua ricerca si concentra proprio sul ritratto utilizzando tecniche innovative come le “Extensions” e i “Collages”.
Con apparecchiature modificate personalmente, realizza fotografie che spaziano su diversi fotogrammi successivi, creando formati inediti che fondono molteplici momenti in un’unica immagine, rivelando strati nascosti della personalità. Oppedisano affronta l’impresa impossibile di fare del cinema all’interno di un’immagine statica, coniugando la fantasia mediterranea con il pragmatismo americano della sua formazione East Coast, creando un linguaggio visivo che rifiuta lo stile chiuso per abbracciare la versatilità e la continua reinvenzione. Abbiamo incontrato con gran piacere Joe per una lunga conversazione.

Joe Oppedisano, la tua mostra al Corigliano Calabro Fotografia si chiama proprio “I volti di Corigliano-Rossano”. Cosa hai voluto raccontare con queste fotografie?

«I calabresi sono persone molto ospitali e belle, in queste foto io ho cercato di portare l’umanità, la positività e l’allegria di queste persone che hanno la gioia di vivere. Da tempo io pratico quella che chiamo Street Portrait, andare in giro e farmi catturare dalle vibrazioni delle persone che incontro. Poi chiedo sempre se vogliono essere fotografate e al 95% mi dicono di sì. Nel caso mi danno una e-mail e gli spedisco il ritratto. Trovo questo tipo di modalità più complice piuttosto che quella di “aspettare” o di “rubare.” Esistono due tipi di fotografi: i cacciatori ed i contadini. I primi sono sempre in cerca dello scatto, un grandissimo lavoro di ricerca e magari si torna a casa a mani vuote. Si tratta di una modalità vicina al reportage. I secondi sono quelli che basano maggiormente il lavoro sulla produzione dello scatto, quindi partono da un’idea e magari lavorano tantissimo in studio per costruire lo scatto stesso, un approccio che assomiglia al cinema dove la preparazione è tutto quanto. Io seguo moltissimo le vibrazioni, l’ispirazione del momento e cerco continuamente la collaborazione stessa del soggetto che fotografo».

Cosa ti ha fatto innamorare della fotografia?

«Ho incontrato la fotografia quando cominciava a nascere l’interesse della fotografia come arte. Ricordo quando a New York è nata la seconda galleria dedicata esclusivamente alla fotografia, la Light Gallery nel 1972, la prima era nata a Milano cinque anni prima, la Diaframma fondata da Lanfranco Colombo, con il quale siamo anche diventati amici. In quel periodo i grandi musei di New York, come il MOMA, si aprivano alla fotografia. Io mi appassionavo. Però fu all’università, quando feci, quasi per caso un corso di fotografia, che scoccò la scintilla, un colpo di fulmine, che mi portò a dire che quello sarebbe stato il lavoro che volevo fare, anche perché univa anche il mio grande desiderio di viaggiare ed incontrare nuovi posti e nuove persone».

Guardando il tuo lavoro si nota una grandissima attenzione al ritratto. Quali sono le cose che cerchi nella figura di una persona, nei volti?

«Una delle altre mie grandi passioni è anche la psicologia. Io mi considero uno junghiano, come Jung cerco l’Ombra, quella parte dell’inconscio che contiene aspetti della personalità rifiutati, repressi o non riconosciuti dall’Io cosciente. Per questo io ho sempre modificato e sperimentato attraverso la tecnologia fotografica per cercare il doppio, quella parte che abbiamo e che dobbiamo scoprire, integrare e non rifiutare».

Joe Oppedisano, parliamo di tecnologia. Che rapporto hai con la tecnologia nella fotografia?

«Io mi considero da sempre uno sperimentatore e guardando il mio lavoro credo sia evidente, soprattutto nel ritratto dove ho praticato la mia ricerca inserendo elementi concettuali. Sia che fossi in analogico che in digitale non ho mai avuto timore delle nuove tecnologie, anzi l’importante per me era impadronirmene per comprenderle sempre di più e farle mie. Ho iniziato dalla pellicola, da quello spazio nero fra due fotogrammi e poi ho sempre proseguito nel cercare di andare oltre il limite fisico della tecnologia fotografica».

A un certo punto della tua vita sei tornato in Italia. Qual è il tuo rapporto con la tua terra?

«La mia famiglia ha una storia lunga e particolare ed anche complessa. Io sono nato in Calabria quasi per caso, i miei genitori erano figli di emigranti calabresi, ma mio padre era nato negli Stati Uniti. Avevo anche un nonno socialista che fu spedito al confino, a Ventotene. Poi quando avevo otto anni siamo ritornati in America. Per me è stato un fortissimo shock culturale, anche perché passavo da Gioiosa alla realtà della grande città degli Stati Uniti, quindi ho dovuto imparare di nuovo tutto. Le mie radici comunque sono sempre state con me, anche quando ritornavo. Io ad un certo della mia vita sono tornato in Italia e ho capito che la mia vita poteva essere qui anche come fotografo».


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