Jang Hyuk, il «Bruce Lee» coreano ci racconta il suo primo album
Questo articolo è pubblicato sul numero 9 di Vanity Fair in edicola fino al 27 febbraio 2024.
Jang Hyuk non è mai stato in Italia. La conosce attraverso i film, come noi che ci siamo appassionati alla cultura coreana attraverso Parasite. Qualcosa di simile è accaduto in Corea del Sud più di vent’anni fa, quando La vita è bella ha vinto l’Oscar per il miglior film straniero e una manciata di pellicole nostrane hanno raggiunto le sale asiatiche. Tra queste, Malèna, diventato un curioso fenomeno di culto: «Noi coreani conosciamo molto bene la tragedia della guerra, quel tipo di storie ci conquistano, ma ammetto che a colpirmi è stata la bellissima Monica Bellucci», dice Hyuk, intento a spiegare la sua passione per le storie tragiche durante questa chiacchierata informale a Seul, alla quale si è presentato con un volto piuttosto fresco per una classe ’76. Nella patria della skincare e della chirurgia estetica è normale, ma qui si tratta proprio di genetica. Lanciato nel 2010 da un K-drama amatissimo, Slave Hunters (guarda caso, una storia d’amore e di guerra), Hyuk in Corea è una superstar, tanto che ancora oggi gruppi di performer imitano il personaggio nelle piazze, sulle note della colonna sonora della serie. Hyuk ha accumulato una settantina di titoli in poco più di 25 anni, tra film, serie e reality show. Due anni fa, il Far East Film Festival di Udine gli ha dedicato una rassegna proiettando suoi noir come Tomb of the River e The Killer. In entrambi i casi ha girato le coreografie di lotta senza controfigura («credo che gli attori dovrebbero usarle il meno possibile, perché ci sono emozioni che emergono anche nelle scene d’azione», ha osservato). Si è cimentato persino nei reality. In uno di questi ha mostrato il suo soggiorno – più quello di un single un po’ nerd che di un papà di tre figli – incorniciato da due librerie immense: in una c’è la collezione di statuine di anime e del suo role model Bruce Lee, a cui, fisicamente, somiglia molto. Gli altri scaffali ospitano i dvd dei suoi film preferiti (c’è anche quello di Malèna) e il suo primo Poca Album distribuito dalla piattaforma musicale Makestar, specializzata in K-pop.
I Poca sono gli album fotografici da collezione delle K-pop band, come i Bts, corredati di un QR Code che rimanda a canzoni e videoclip in rete. Pensa a una nuova carriera?
«No! Il mio Poca costituisce una piccola rivoluzione. È una nuova forma di cinema, nello specifico un corto senza dialoghi e nel formato di un videoclip di alcuni minuti. A volte i video accompagnano le tracce musicali narrando una storia, mentre qui è la musica a essere al servizio di un racconto. In pratica, è un breve film girato in piano sequenza, intitolato This Is Real Action e incentrato su un sicario che sconfigge con eleganza vari avversari sulle note di un tango».
Perché un tango?
«Le arti marziali somigliano molto alla danza, è come guardare un balletto. Era suggestivo associarle a qualcosa di raffinato e passionale come il tango. Il film è anche la mia prima produzione indipendente: l’ho ideato, coreografato e interpretato per farne il primo titolo realizzato dalla mia agenzia».
C’è voluto coraggio a mettersi in proprio?
«Non è stata una decisione avventata. Il cinema coreano è sulla cresta dell’onda, tutto il mondo ci guarda e questo ha rivoluzionato il settore: abbiamo più budget e la narrazione è più articolata, però subiamo anche più pressioni. Ma le mode passano, e questo fa paura. Un attore, per sopravvivere, deve provare cose nuove. Pensi a Tom Cruise che ha girato film diversissimi come Magnolia, Eyes Wide Shut e Mission: Impossible. Ora sono di moda gli action movie, e io volevo aprire un’agenzia che sfruttasse le mie conoscenze delle arti marziali per produrre le scene d’azione di film di ogni Paese. Il problema è che anche se questo tipo di scena va oltre le barriere del linguaggio, l’ostacolo dell’inglese resta costante per noi asiatici».
Ma lei mi sta parlando in inglese.
«Perché lo sto studiando come un matto! Non parlarlo limita le opportunità di ottenere ruoli a Hollywood ma anche le altre relazioni necessarie a un artista. Me ne sono reso conto un paio di anni fa, quando sono stato ospite al New York Asian Film Festival. Tornato a casa, mi sono trovato un’insegnante d’inglese e ho spedito i miei figli in Canada a studiare. Adesso sono un papà che vive lontano dai suoi cari. Mi mancano come l’aria, ma vale
la pena».
È un fenomeno diffuso in Corea del Sud, vero?
«Molto. Tanto che i padri rimasti soli, per un anno o più, per permettere ai figli di andare con le mamme all’estero a studiare hanno un soprannome: ci chiamano Wild Goose Dad (papà che, come le oche selvatiche, per visitare le loro famiglie devono fare una migrazione, ndr).
È il sacrificio che i genitori fanno nella speranza che i propri figli abbiano più opportunità in futuro nel mondo del lavoro».
Ha un figlio che vuole fare l’attore?
«Credo che il mio secondogenito, che ora ha 14 anni, ci pensi fin da quando era piccolo. Il talento c’è. A scuola è sempre al centro dell’attenzione, ama l’arte e la musica. La femmina ha solo sette anni, è ancora presto per pensarci, mentre al maggiore, di 16, interessa solo il calcio».
Glielo lascerà fare?
«Con le dovute precauzioni».
Anche se la società coreana, ossessionata dalle celebrità e dalla bellezza, registra un preoccupante tasso di suicidi tra idol e attori?
«Non è giusto che rinunci ai suoi sogni. Posso solo cercare di proteggerlo. Le cose sono cambiate molto rispetto a vent’anni fa, la mia generazione non ha subito le pressioni e l’attenzione che ricevono adesso le celebrità emergenti. Oggi l’apparenza è diventa primaria rispetto al talento, così come la presenza sui social».
Su Instagram ha un profilo dove non mostra niente di personale, con un nome curioso, «Ajincome».
«Vivere una vita accessibile al pubblico richiede cautela e responsabilità a un attore con una famiglia, quindi metto solo cose che riguardano me. Per quanto riguarda il nome, è un acronimo, si traduce più o meno come “L’attore Jang Hyuk è naturalmente e ardentemente passionale”. Sento che mi rappresenta molto».
Agli idol e agli attori coreani le agenzie chiedono di rimanere single. È vero che lei per sposarsi è dovuto scappare con la sua futura moglie?
«No, è una notizia diffusa sul web. Yeo-jin e io ci siamo innamorati in modo anonimo. Pratico le arti marziali e il pugilato, mia moglie è una ballerina, ci siamo conosciuti in un fitness club. Lei insegnava pilates, così mi sono iscritto a uno dei suoi corsi. Ero l’unico uomo tra quaranta donne! Tutto molto normale».
Source link