Italia senz’acqua e senza competenze: l’Umbria come specchio del fallimento strategico
di Paolo Coletti
In Italia, le emergenze non sono mai del tutto impreviste. Sono figlie legittime di una cronica incapacità di pianificare, leggere i dati e anticipare i cambiamenti. Che si parli di gestione idrica o di mercato del lavoro, il risultato è sempre lo stesso: spreco di risorse, inefficienza sistemica e una collezione di opportunità perse degna di un museo. L’Umbria, cuore verde del Paese, oggi è il laboratorio di questa doppia crisi. Laboratorio, sì, ma senza tecnici e con le provette rotte.
Siamo talmente bravi a pianificare che soffriamo sia quando non piove sia quando piove troppo. Un talento raro. Alluvioni, frane, devastazioni: la natura ci manda segnali, e noi rispondiamo con una scrollata di spalle e un «vediamo che succede». Mancano vasche di laminazione, bacini di raccolta, sistemi di drenaggio urbano. Abbiamo tante buone intenzioni, ma purtroppo non trattengono l’acqua. È una gestione schizofrenica: non sappiamo né conservare né contenere. Ma almeno siamo coerenti nell’incoerenza.
Nel 2024, l’Umbria è stata inserita tra le dodici regioni italiane ad alto rischio idrico. Un riconoscimento prestigioso, a quanto pare. Secondo il rapporto della Community valore acqua per l’Italia, abbiamo perso il 51,5 per cento delle risorse idriche rinnovabili in un solo anno. Il Lago Trasimeno, simbolo ambientale e turistico, ha toccato livelli critici, fino a –1,54 metri rispetto allo zero idrometrico. Le previsioni? Un peggioramento, ovviamente. La Regione Umbria e la Regione Toscana hanno avviato il collegamento con la diga di Montedoglio per trasferire dieci milioni di metri cubi d’acqua all’anno. Una soluzione tampone. Infatti, senza una pianificazione integrata come la pulizia costante dei canali e i dragaggi mirati, si resterà sempre a inseguire le emergenze.
Secondo Marco Stelluti, geologo del Servizio Rischio idrogeologico della Regione Umbria, «il quadro idrologico mostra una tendenza consolidata alla riduzione delle risorse superficiali e sotterranee». Tradotto: stiamo finendo l’acqua, ma almeno lo stiamo facendo con coerenza. Il Lago Trasimeno è il simbolo di un sistema che non regge più. L’assessora regionale all’Ambiente, Simona Meloni, ha dichiarato: «Servono dragaggi, pulitura delle sponde e un accordo di programma. Non possiamo più affidarci alla speranza di una primavera piovosa».
Il problema, quindi, non è solo climatico. È anche strutturale. Le reti idriche italiane perdono in media oltre il 40 per cento dell’acqua potabile immessa. È come riempire un secchio bucato e sperare che si riempia. Gli invasi sono sottoutilizzati, le vasche scarse, la manutenzione un concetto esotico. Valerio De Molli, Ceo di The European House – Ambrosetti, ha detto che «la situazione idrica in Italia richiede un’azione immediata e concertata. È necessario modernizzare le infrastrutture e attivare il 20 per cento dei volumi potenzialmente sfruttabili già presenti nelle grandi dighe italiane». Tradotto: servirebbe fare qualcosa, possibilmente prima del prossimo disastro.
Accanto alla gestione creativa dell’acqua, abbiamo quella delle risorse umane. Nel primo trimestre del 2025, le imprese umbre hanno previsto 16.580 assunzioni. Ma il 54 per cento delle posizioni è risultato difficile da coprire. Il lavoro c’è, ma le competenze sono in ferie. Le figure più richieste? Tecnici della salute, fabbri, saldatori, dirigenti di processo. Insomma, tutto tranne gli influencer.
La Cgil Umbria ha lanciato un appello: «Serve un piano per rilanciare l’economia». Andrea Corpetti, responsabile per lo sviluppo economico della Cgil Umbria, ha dichiarato: «Investire in formazione, innovazione e qualità dell’occupazione per fermare il declino». Il rapporto della Fondazione Di Vittorio è una doccia fredda, sempre che ci sia acqua: solo il 39 per cento dei lavoratori umbri ha un contratto stabile e a tempo pieno. Il resto vive di contratti discontinui, part-time e stipendi da pura sussistenza. Maria Rita Paggio, segretaria generale della Cgil Umbria, ha definito il modello attuale fallimentare: «Il lavoro esiste, ma non garantisce più condizioni di vita dignitose».
La crisi idrica e quella del lavoro qualificato sembrano distanti, ma sono sorelle gemelle: nate dall’assenza di pianificazione. Si naviga a vista, con la bussola rotta e la mappa disegnata su un tovagliolo. Si rincorrono le emergenze, si ignorano i dati, si evita il confronto con il futuro. Perché il futuro è un concetto troppo impegnativo.
L’Umbria, con i suoi laghi in secca e le imprese in cerca di personale, ci mostra cosa succede quando si smette di progettare. È un campanello d’allarme che suona da anni, ma nessuno si alza dal divano. Non bastano interventi isolati. Serve una strategia nazionale e regionale che metta al centro investimenti strutturali nelle reti idriche e nella formazione professionale, un’integrazione reale tra enti locali, imprese, scuole e università, e politiche di lungo periodo, basate su dati e visione concreta, non su oroscopi. Perché un Paese che non sa trattenere l’acqua né valorizzare il talento è un Paese che si sta prosciugando. Dentro e fuori.
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