Irene Tomedi si racconta: «Al lavoro sulla Sindone l’emozione più grande» – Cronaca
BOLZANO. Ha toccato la Sindone? «Eccome. Per giorni e giorni». Aggiunge: «Con molto rispetto. Lì, al lavoro, non c’entra la fede è che miliardi di persone al mondo la guardano e si aspettano risposte». Le sue? «So che c’è chi dice sia il vero sudario di Cristo, altri che risale alle Crociate. Ma la risposta è ancora sospesa, perché è stata conservata così bene e sempre al buio, che potrebbe arrivare da ieri come dalla notte dei tempi».
Adesso Irene Tomedi sta ricomponendo uno scheletro. Nel suo laboratorio di piazza Erbe ha in mano un martire cristiano del IV secolo. «Probabilmente è stato ucciso nel Colosseo…». Il bello è che era conservato, fino al giorno in cui gli è stato consegnato, nella parrocchiale di Sarentino.
«Scommetto che nessuno lo sapeva qui intorno»: sorride una delle più quotate restauratrici di questo mondo. Specializzata, ecco il punto, in tessuti. Di ogni tipo. Da quelli che coprivano le mummie egizie, alle vesti dei martiri. Fino al punto da essere stata chiamata per la Sindone. E verificarne lo stato prima di operare possibili interventi. Da amanuense dei filati. Una telefonata da Torino, le immagini dell’incendio che nella notte tra l’11 e il 12 aprile del 1997 divampò nella cappella del Guarini dove, in una teca d’argento, era conservato il sudario, il suo laboratorio che pareva allora e oggi, una sala operatoria. Sta qui molta della vita di Irene Tomedi.
Iniziata quando?
Nello spostarmi da Bolzano a Ortisei, ragazzina, e iniziare l’istituto d’arte a Ortisei. E poi a 19 anni in Svizzera, in quella che all’epoca era l’unica scuola per il restauro dei tessuti antichi. Lì si è innescato il vero innamoramento.
Che cosa ha sotto mano adesso?
Uno scheletro.
Addirittura.
C’è da dirlo. Perché era, anche per me, al suo arrivo, un poco macabro. Tutto annerito dal tempo, con la veste che gli era stata applicata piena di polvere. Insomma, sembrava ci fosse solo nero.
E invece?
Una scoperta. Innanzitutto perché arriva dalla nostra storia occidentale di mille e settecento anni fa. È lo scheletro di un martire cristiano, ucciso certamente o nell’arena o nel corso delle persecuzioni intorno al 300 dopo Cristo da parte dei romani.
Lo sa per certo?
La Chiesa, in età contro controriformistica, lo ha certificato. Con tanto di bolla e santificazione.
Diceva di una notizia…
E certo. È stato conservato e si trova a Sarentino.
Come è accaduto?
Molte chiese, tra il ‘600 e il ‘700 si erano dotate di queste reliquie. Non solo di parti dei corpi ma di interi scheletri. Poi, il loro deperimento, la trasformazione ossea, il bianco che diventa nero, creava sconcerto tra i fedeli, tanto da essere posti in luoghi non accessibili.
Ma c’è anche del tessuto?
È una delle questioni più interessanti. Allora: quando è giunta in Alto Adige questa reliquia, sono state le suore, in modo certosino, a cucire e a ricamare una veste anche per questo martire. Ci inserivano broccati e perle. Solo che, con il tempo, anche le stoffe seguivano il destino delle ossa, annerendosi.
E adesso?
Ho dovuto scomporre lo scheletro, recuperare il tessuto e poi mi attende la ricomposizione del corpo.
Ecco perché c’è chi definisce il suo laboratorio una sala operatoria…
Beh, non c’è sempre di mezzo uno scheletro. Ma penso ci si riferisse alle luci e alle strumentazioni.
Lavora anche con i nostri musei?
Certamente.
Dal suo sguardo, vede qualche problema?
La prima cosa che dovrebbe fare un museo è curare i propri depositi. A volte non succede. E invece proprio la manutenzione dei reperti, il loro restauro e la catalogazione mirata sono la chiave per il mantenimento del nostro patrimonio.
Che a volte non è mai del tutto visibile no?
Altra questione: i musei dovrebbero essere agili e fare ruotare molto quello che possiedono. Invece vedo spesso collocazioni fisse e allora anche il pubblico rischia di annoiarsi. Più rotazione dei reperti e maggior cura dei dettagli.
Con la sindone andò tutto bene?
È stata una magnifica esperienza. Toccare quello che nella storia cristiana e occidentale è forse uno dei simboli della fede cristiana va oltre l’emozione e diventa una sfida professionale. Ma ogni arrivo lo è. Anche questo da Sarentino…




