Iran, le minacce terroristiche dalla Siria (ex alleata) e i sospetti su una tattica destabilizzatrice di Israele
C’è qualcosa di insolito, addirittura inedito, nel comunicato diffuso dal ministero dell’Intelligence iraniana lo scorso 28 luglio, pochi giorni dopo la fine – o la tregua – della guerra di 12 giorni con Israele. All’indomani di un attentato terroristico – 9 morti – rivendicato dai jihadisti di Jaish Al Adl in un tribunale di Zahedan, capoluogo della regione del Balucistan, al confine col Pakistan. Nel report, diffuso dall’emittente Irib, le autorità iraniane non si limitano ad elencare una serie di operazioni di controspionaggio condotte prima, durante e dopo la guerra con Israele, durante le quali sarebbero stati arrestati centinaia di miliziani “salafiti-takfiri” e sequestrato un numero imprecisato di carichi di armi, sia nello stesso Balucistan che nelle regioni occidentali a maggioranza curda, ma segnalano di fatto l’emersione di una nuova e fino a poco tempo fa impensabile minaccia, cioè quella proveniente dalla nuova Siria, fino allo scorso anno solido alleato di Teheran.
Una minaccia a cui a dire il vero aveva già accennato il quotidiano Mashreg, menzionando un “triangolo di minacce” – da parte curda, baluci e siriana, col sostegno americano ed israeliano -, nonché il progetto jihadista-takfiri di un “nuovo califfato” da esportare anche in Iran. Il report dell’Intelligence menziona infatti tra le altre l’individuazione di una “cellula di circa 150 elementi” con base in Siria, “pronti ad attaccare l’Iran avvalendosi della collaborazione di gruppi insorgenti” – tra cui movimenti curdi – localizzati lungo il confine occidentale iraniano, ed in generale inscrive e riconduce questi movimenti all’interno di una tattica destabilizzatrice di Israele, che li sosterrebbe. Se è vero che l’agenzia di stampa iraniana SNN già lo scorso 9 luglio parlava della Siria come di un nuovo “paradiso per lo spionaggio israeliano”, è sensato segnalare come Damasco sia passata in poco tempo dall’essere una componente geografica e logistica della “profondità strategica” dell’Iran, funzionale al sostegno e all’assistenza di gruppi alleati in funzione anti-israeliana, all’esatto contrario, ossia un Paese militarmente “neutralizzato” da Tel aviv, e di fatto quasi sotto il suo controllo.
Se fino al 2024 la Siria poteva esser vista come un luogo dal quale gli iraniani erano in grado di porre minacce nei confronti di Israele, oggi la Siria – perlomeno agli occhi di Teheran – è diventato un avamposto israeliano, o meglio un Paese in cui Israele ha la possibilità di sobillare e organizzare gruppi armati in un’ottica anti-iraniana. Tuttavia, lo scorso 30 luglio, il quotidiano saudita Al Arabiya, citando una fonte dell’Intelligence israeliana, parlava del “rischio di attacchi ad Israele da parte di elementi sostenuti dall’Iran e localizzati nel sud della Siria”.
Le reazioni interne al comunicato dell’intelligence iraniana sono state eterogenee, divise tra chi sostiene una nuova narrativa di accerchiamento da parte delle autorità, e chi invece la usa per rimproverare la mancata protezione dei generali uccisi negli strike israeliani – vista anche l’istituzione ad hoc, lo scorso agosto, di un nuovo Consiglio Supremo di Difesa Nazionale, con un focus sulla difesa da attacchi diretti. Ma è opportuno segnalare come e quanto in Iran stia crescendo la preoccupazione per le attività militari lungo i suoi confini ed anche oltre, fino in Siria, dove delle presunte nuove “proxies” israeliane – così descritte dai principali quotidiani iraniani – hanno di fatto rimpiazzato quelle descritte spesso come “proxies” iraniane.
Non è ancora chiaro quanto ci sia di concreto nella collaborazione tra questi gruppi – anche in Azerbaijan, i cui rapporti con Tel Aviv sono sempre più stretti – ed Israele ma è intuibile come questo clima possa essere sfruttato dalle autorità iraniane anche per aumentare la repressione interna, nella convinzione che vi siano reali e rinnovate minacce separatiste, pronte a sfruttare la percezione di accentuata debolezza del regime, dopo i bombardamenti israeliani.
Desta tuttavia qualche perplessità quanto scritto sulle colonne di un quotidiano molto vicino all’Irgc, Vatan-e Emrooz, cioè che, vista la quasi contemporaneità di attacchi subiti nella stessa Zahedan, in Balucistan, e sul confine opposto del Paese, a Sardasht, in Azerbaijan orientale, esisterebbe una attività di coordinamento tra gli stessi miliziani baluci di ispirazione salafita di Jaish al Adl, ed il Free Life Party of Kurdistan (PJAK), di orientamento socialista e sostanzialmente laico.
Il paesaggio geopolitico, per l’Iran, è cambiato molto nell’ultimo anno, e vista la sua stretta interconnessione con la dottrina di difesa nazionale, che ha sempre fatto affidamento sulle risposte asimmetriche iraniane attraverso i suoi alleati regionali, oggi in crisi oppure rovesciati come nel caso di Assad, è facile comprendere come esso generi preoccupazioni e le relative risposte repressive (che ciclicamente si concentrano sui gruppi separatisti) all’interno dell’establishment.
Ancor più, potrebbe costringere Teheran a nuovi dolorosi trade off: a dover quindi riallocare, spostare una serie di risorse dalle operazioni all’estero a quelle di difesa dei confini interni, con la prevedibile conseguenza anche di una nuova stagione di violenze contro le minoranze etniche, numerosissime all’interno di un Paese in cui solo il 60% è di etnia persiana, e che spesso sono state portatrici di spinte centrifughe.
Un chiaro segnale in tal senso – che segnala allo stesso tempo una maggiore vulnerabilità iraniana – è la recente richiesta di collaborazione militare sul confine est con il Pakistan, che in altri tempi sarebbe stata complessa, quando non preclusa dalla presenza di forti tensioni – i due paesi si accusano storicamente di finanziare gruppi separatisti al di là dei reciproci lati del confine, e nel gennaio 2024 c’era stato anche uno scambio a fuoco diretto. Tuttavia, proprio la necessità di contenere queste minacce interne potrebbe andare a detrimento del contrasto a quelle, potenzialmente ancora in fase embrionale, provenienti da una Siria con un volto molto diverso rispetto a pochi mesi fa, e in cui Israele sembra avere tutti gli strumenti per volgerle a proprio favore.
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