Infertilità maschile, lo sperma coltivato in laboratorio è la nuova frontiera
secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità l’infertilità riguarda il 17,5% della popolazione adulta mondiale, ossia circa una persona su sei. In Italia, la stima ufficiale dell’Istituto superiore di Sanità indica che il 15% delle coppie è infertile e, in quasi la metà dei casi, il problema è attribuibile all’uomo. Studi internazionali segnalano inoltre un crollo di circa il 50% della concentrazione spermatica dagli anni ’70 a oggi, con un’accelerazione del calo dal 2000 in poi – ne avevamo ampiamente parlato tempo fa. Fattori ambientali, stili di vita e patologie (dall’obesità alle infezioni post-covid) sono fra le cause più discusse.
L’idea di produrre spermatozoi in vitro
La produzione di sperma in laboratorio non sembrerebbe più fantascienza: i primi prototipi tessuto-ingegnerizzati dimostrano che la spermatogenesi può essere imitata in vitro. Se le prove di efficacia e sicurezza confermeranno le aspettative, più o meno nei prossimi dieci anni potremmo assistere a un cambiamento radicale delle cure per l’infertilità maschile, offrendo a molte coppie la possibilità di un figlio geneticamente proprio.
La spermatogenesi, per come documentata nei primi esperimenti, è un processo che dura 64-72 giorni e richiede un micro-ambiente testicolare complesso. Ricrearlo in vitro significa fornire cellule di supporto (quelle di Sertoli e di Leydig per esempio, coinvolte appunto nel processo e nella produzione di testosterone), fattori di crescita e una matrice 3D che guidi la maturazione degli spermatogoni fino a che non diventano spermatozoi funzionali. Finora il risultato completo è stato ottenuto solo in modelli animali ma la strada sembrerebbe promettente, pur in uno slalom etico non di poco conto.
Il progetto dell’Università di Limerick
A provarci in questi anni è in particolare un team guidato da Eoghan Cunnane al dipartimento di Bioingegneria dei materiali dell’università di Limerick, in Irlanda, che sta sviluppando – lo ha spiegato lo stesso scienziato in un articolo pubblicato su The Conversation – strutture realizzate in 3D su cui far crescere cellule testicolari riprodotte a partire dall’analisi dei dati legati a biopsie di pazienti con azoospermia non ostruttiva. L’obiettivo è appunto generare spermatozoi capaci di fecondare iniezioni intracitoplasmatiche già in fase pre-clinica (Icsi). I ricercatori prevedono di testare i primi prototipi su tessuti umani ex-vivo entro due-tre anni, con studi di sicurezza e qualità genetica prima di ogni applicazione clinica.
«La nostra ricerca mira a superare questa sfida [cioè l’inaffidabilità dei modelli animali per la sperimentazione, nda] coniugando biologia, ingegneria meccanica e scienza dei materiali – scrive Cunnane – siamo partiti analizzando campioni di tessuto testicolare umano provenienti da diversi donatori, sviluppando una comprensione dettagliata del suo funzionamento. Questi dati sono stati integrati nella progettazione di sistemi modello che replicano il tessuto testicolare umano non solo dal punto di vista biologico ma anche meccanico e strutturale. L’obiettivo finale è creare un modello che non solo imiti la funzione del testicolo ma produca spermatozoi umani vitali».
Perché le tecniche attuali non bastano
Oggi la Pma di terzo livello utilizza Icsi con spermatozoi prelevati chirurgicamente (attraverso tecniche note come Tese/Micro-Tese) o crioconservati. Quando i testicoli non producono cellule germinali mature, l’unica opzione resta il ricorso a un donatore. La possibilità di creare spermatozoi autologhi eviterebbe il ricorso a gameti esterni e aprirebbe una chance a diverse situazioni complicate, per esempio a persone sottoposte a chemioterapia prima della pubertà. Oggi l’infertilità idiopatica, quando cioè non vi siano cause evidenti che spieghino il mancato concepimento in una coppia, nonostante tutti gli esami e le indagini siano normali, lascia ai pazienti – almeno per affrontare uno dei due fronti – appunto la sola opzione appena citata a parte il ricorso al donatore: il prelievo chirurgico di spermatozoi (Ssr). Una pratica che ha però un tasso di successo molto basso, inferiore al 40% nell’individuare un singolo spermatozoo utilizzabile. Oltre al suo impatto fisico ed emotivo, l’Ssr «sposta inoltre il peso del trattamento di fertilità sull’apparato riproduttivo della partner femminile – spiega l’esperto – il che significa che il corpo della donna diventa spesso bersaglio di farmaci e procedure ormonali. Questa tecnica fa ben poco per affrontare i rischi di salute associati all’infertilità maschile, tra cui tassi più elevati di malattie e mortalità precoce».
Le tappe sperimentali e le sfide aperte di questo percorso sono tante. Anzitutto portare la spermatogenesi in vitro dalla piastra di coltura alla soluzione clinicamente disponibile impone di mantenere per almeno due mesi un micro-ambiente controllato (temperatura, ossigeno e flusso ormonale). Poi dimostrare la qualità genomica dei gameti escludendo aneuplodie e mutazioni de-novo e, sul lato legislativo, definire un quadro normativo che in Europa collochi i prodotti della gametogenesi in vitro nel regolamento su tessuti e cellule umani con requisiti stringenti di tracciabilità e consenso. Infine occorrerà affrontare le irrinunciabili questioni etiche su selezione embrionale, tutela del nascituro e possibili usi non terapeutici, inclusi quelli per coppie dello stesso sesso o persone single.
Possibili tempi di sviluppo
Gli esperti ipotizzano studi di fase I su modelli animali superiori entro cinque anni e trial umani di sicurezza fra sette-dieci anni, a condizione di dimostrare che gli spermatozoi in vitro garantiscano tassi di fecondazione e sviluppo embrionale paragonabili a quelli naturali. In termini di implicazioni per la salute pubblica, la tecnica – per ora, come visto, molto lontana – comporterebbe un riduzione del ricorso a donazione di gameti e dei relativi costi sanitari; nuove opportunità per uomini con insufficienza testicolare primaria o esiti negativi di tese; rafforzamento dei programmi di prevenzione. Ma naturalmente l’avvento di questa o altre soluzioni tecnologiche non deve far dimenticare l’impatto di fumo, inquinanti e malattie metaboliche sulla fertilità generale.
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