Indigo De Souza – Precipice
Indigo De Souza è una delle voci più magnetiche e spigolose dell’indie rock, capace di scavare a fondo in ogni canzone come se ogni parola fosse una ferita che grida. Sì, insomma, quando canta è come se tutto il suo corpo e la sua anima fossero coinvolti in una specie di danza dolorosa (ma bella), come una sorta di liberazione catartica. E quando è al massimo, non si limita a cantare: ti conquista con la sua vulnerabilità cruda e senza filtri. Precipice, però, non riesce a trasmettere la stessa forza devastante dei suoi lavori precedenti. È come se stesse camminando sul filo del rasoio, senza mai osare il passo decisivo che potrebbe catapultarla in un territorio davvero audace.

Sì, certo, il disco ha dei momenti di pura magia, brillando soprattutto quando la Nostra si lascia andare senza freni. La traccia d’apertura, “Heartthrob”, per esempio, è il tipo di canzone che ti fa sentire come se potessi ballare da solo sotto la pioggia, con un jingle che richiama l’atmosfera di Dancing in the Dark, ma con un’energia tutta sua. Non è solo un pezzo pop, è un urlo liberatorio, un inno che ti entra nelle ossa. Poi c’è “Crying Over Nothing”, che ti trascina in un vortice di nostalgia, e “Not Afraid”, dove la sua voce si fa tanto intensa da sembrare impossibile da contenere. Qui, davvero, Indigo De Souza è una stella in piena ascesa.
Eppure, per quanto siano potenti queste canzoni, Precipice non riesce a mantenere quella tensione che ci si aspettava. Troppe tracce sembrano affogare in un suono stantio, come la malinconica e quasi banale “Crush”, che sembra uscita da una playlist da sottofondo per la Generazione Netflix, o la blanda “Heartbreaker”, che si affida troppo a cliché country senza mai decollare. In soldoni, la parte centrale del disco sembra infilarsi in una sorta di limbo, dove la brillantezza dei momenti più forti viene offuscata da una produzione che, anziché spingere il suono verso nuovi orizzonti, sembra preferire la sicurezza del già sentito.
Il vero punto dolente arriva nella seconda metà dell’album, dove brani come “Dinner” e “Clean It Up” sembrano più simili a riserve di materiale scartato da Phoebe Bridgers, anziché da una delle voci più audaci della scena indie. Le parole si perdono, scivolano via come cliché mal assortiti: “Pick up, say hello / I’m here, ready to go / Like a, a fast car / Don’t know if you should turn it on“. Qui sembra che De Souza stia cercando di scrivere qualcosa di profondo, ma finisce per cadere in trappole verbali che non fanno altro che appiattire l’emozione.
Ma attenzione: Precipice non è un album che affonda nel nulla. Ha dei picchi che ti ricordano perché avevi iniziato ad amarla, proprio per quella capacità di far vibrare ogni nota e ogni parola. Le cicatrici, la ricerca di un senso in un mondo che ti frantuma, ci sono ancora. E non si può ignorare il fatto che Precipice arriva dopo anni di devastazione personale: De Souza ha perso la sua casa, ha attraversato un periodo di cambiamenti tumultuosi, si è trasferita a Los Angeles. A un certo punto, il disco si fa terreno fertile per dichiarazioni di rinascita e sfida. Un urlo di libertà, sì, ma non sempre centrato in tutta la sua forza.
Ciò che manca è la convinzione totale, quel passo in avanti che l’artista americana, nelle sue migliori uscite, aveva il coraggio di fare. C’è una sensazione di potenziale inespresso, di un’artista che sta cercando di capire come fondere la sua identità indie con il desiderio di approdare nel pop. E proprio per questo, Precipice non sembra trovare il giusto equilibrio. Capita anche alle migliori.
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