Il vuoto che lascia alla musica italiana Paolo Benvegnù
Il vuoto che lascia la scomparsa di Paolo Benvegnù – il 59enne cantautore morto all’improvviso il 31 dicembre a Perugia, dove lui, milanese di nascita, viveva – è impossibile da colmare con i mezzi di oggi, perché l’artista in questione era cosa di ieri, fuori dal proprio tempo, ma senza nostalgie o battaglie ideologiche inutili, anzi con garbo e gentilezza – personale, musicale, anche solo di stile – che si riverberavano bene nel presente. Un insostituibile, ecco, prezioso, in controluce rispetto al contesto. E la nostalgia è nostra e istantanea: di chi lo perde, di chi non l’ha mai ascoltato e ora non può che recuperarlo.
Già leader nei Novanta degli Scisma, una band simbolo di una scena rock alternativa che macinava grandi numeri e oggi sembra impossibile anche solo concepire, dal 2004 aveva intrapreso la carriera solista come cantautore, chitarra acustica in braccio e via, battezzato dall’album Piccoli fragilissimi film, cult di quella stagione sospesa tra vecchio e nuovo (aggrapparsi all’esistenzialismo di Il mare vermicolare, summa della sua poetica, per credere) di cui aveva appena festeggiato il ventennale con un’edizione speciale, dove rifaceva i pezzi di allora con i vari Piero Pelù, Motta, Malika Ayane e La Rappresentante di Lista. Ma il 2024, in generale, era stato il suo anno perché aveva ricevuto per la prima volta il Premio Tenco per il miglior disco, È inutile parlare d’amore, nono da solista, uscito lo scorso gennaio. A parte il tempismo, che letto ora fa piangere e sarebbe stato bello se avesse potuto goderne più a lungo, in generale qualcuno aveva sobillato che fosse un premio a una carriera da cantautore raffinato d’alta scuola, perché, ok, era un bel lavoro, ma ne aveva scritti di più centrati in passato, quando anche Benvegnù stesso aveva ammesso di aspettarselo di più. Forse la concorrenza aveva fatto, davvero, del proprio peggio – un altro segno dei tempi. O forse chissà.
Ricordo di averlo intervistato, pochi giorni dopo, e avergli chiesto come si sentisse. Mi disse di essere soddisfatto per quelli che lavoravano con lui, a cui aveva dimostrato che quegli sforzi erano serviti a qualcosa: c’era qualcuno che li ascoltava, che li capiva, finalmente. Dopo vent’anni, nell’epoca della musica mordi e fuggi, era qualcosa. Ma gli domandai anche se, in tutto questo tempo, si fosse sentito incompreso. Se il premio significasse qualcosa per lui come artista. Mi spiazzò: da giovane, disse, aveva sofferto per questa condizione, ma con il passare del tempo aveva accettato l’essere un eterno outsider; non che gli piacesse, solo aveva capito che c’era un soffitto di cristallo, che più di tanto non avrebbe potuto fare, e se prima ci era rimasto male adesso non era più tempo di struggersi. «Ho accettato», concluse, «che c’è gente più brava di me». Lo ammetteva con il sorriso, non dava colpe al sistema o a chissà chi.
Ma non prendiamoci in giro: Benvegnù era un cantautore gigantesco, colonna dell’altra musica italiana che non va in classifica senza mai tirarsela, presenza costante nei calendari dei piccoli club, nonché molto più bravo rispetto a quanto si schermisse, fosse anche solo per difendersi. Conosceva, diceva, i fan uno per uno. E la sua carriera è stata a tutti gli effetti una faticaccia, come quelle degli artisti di culto di cui ci scordiamo troppo spesso: sempre libero e indipendente, sì, ma con parecchie porte sbattute in faccia, pochi soldi, sempre meno posti per esibirsi e in generale lì in mezzo, a combattere i mulini a vento di un mercato che quelli come lui, che percorrono un’alternativa, li mette a fare musica per quei pochi che hanno ancora voglia di non farsi dettare gli ascolti dall’algoritmo. Altro che non essere abbastanza bravo: al massimo furbo, o fortunato. Qual è il prezzo della libertà? Questo, e non ci farebbe piacere viverlo sulla nostra pelle.
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