Ambiente

Il silenzio nei colloqui di lavoro: tacere o fare silenzio?


Allora tento qualche chiave di lettura a partire dall’importanza del silenzio nella conversazione, da quello che dobbiamo fare noi, per aprire uno spazio sufficiente affinché cresca la disponibilità altrui ad esprimersi. E anche per lasciar defluire noi stessi (in senso riflessivo): io normalmente uso la distinzione tra stare in silenzio e fare silenzio. Stare in silenzio significa non dire niente, ma se intanto sono concentrato su di me, sulle mie emozioni e pensieri, su come articolare una risposta, è un silenzio egoico. Per lasciare davvero spazio nella conversazione, occorre fare silenzio; non solo non parlo, ma cerco il silenzio interiore come vuoto, come spazio che può contenere, se non il tutto, almeno in parte l’altro nella conversazione.

Poi c’è, appunto, l’ascolto del silenzio altrui. E qui forse ci può aiutare la distinzione tra i due “verbi latini taceo e sileo – con la tendenza a intendere il primo come assenza di parola, opposto dunque a loqui, e il secondo come semplice assenza di suono”, come scrive Antonio Prete nel suo “Del Silenzio”.

Tornando ai nostri colloqui, che interpretazione dare all’interlocutore che non parla? E non intendo “scena muta”, ma una somma minima di micro-comportamenti di ascolto attivo e apparente assenso, ma non supportati da nessun tipo di verbalizzazione particolare, o da poche cortesi parole di circostanza, prive di qualunque contenuto personale. In questi casi il silenzio viene vissuto dai manager come funzionale alla relazione, e raramente vedo chiedersi: ma il “collaboratore” che non mi dice niente di significativo, sta tacendo o sta facendo silenzio? Come distinguerli se fisicamente si palesano nello stesso modo? E son domande importanti, perché se sta facendo silenzio potrebbe servire lasciare spazio per pensieri, emozioni, o magari qualche suggestione / domanda per stimolare il pensiero stesso, o l’espressione delle emozioni. Ma se sta tacendo, c’è dietro una volontà che è pericoloso, dal punto di vista relazionale, non provare ad indagare. All’interno di un colloquio, in cui magari si sta proponendo a un collaboratore un’attività interessante e senz’altro complessivamente gradita (è spesso la premessa della simulazione), difficile pensare che un eventuale tacere non sia legato a qualche punto critico o potenziale difficoltà / contrarietà che il responsabile ha provato a risolvere troppo frettolosamente, senza lasciare abbastanza spazio. E questo tacere viene però sottovalutato o ignorato, forse anche per colpa dell’antico e fuorviante adagio “chi tace acconsente”.

Se può essere verosimile il proverbio in una relazione paritaria, bisogna fare la tara in una relazione gerarchicamente dispari come quella tra capo e collaboratore. E non sto parlando solo di stili legati al comando/controllo, ma anche in situazioni relazionali generalmente impostate sul confronto e il dialogo. Se all’emergere di possibili criticità o difficoltà, queste non vengono accolte ma si rimandano al mittente senza indagarle, difficile che un collaboratore non opponga un silenzio che è in realtà un tacere. Borgna dice “il silenzio e il tacere sconfinano l’uno nell’altro, e non è facile distinguerli se non immergendoci nella nostra interiorità (…) ma come riconoscerla negli altri?”

Lui prosegue con strumenti tipici del suo mestiere; io mi limito a suggerire, senza pretesa di universalità, un paio di strumentini pratici. Il primo, l’uso del tacere a nostra volta. Nel senso letterale di taceo, di resistere alla tentazione della nostra parola, per dare tempo a farne emergere dall’altro. Per darvi un’idea, ragionando sui colloqui a posteriori con i manager, spesso parto da una osservazione brutalmente quantitativa: chi ha parlato di più, il manager o il collaboratore? E quanto di più? Vi lascio immaginare la risposta.


Source link

articoli Correlati

Back to top button
Translate »