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il segreto dietro i suoi successi e la forza mentale

Elegante e disinvolto in pantaloni blu, come i mocassini scamosciati, e girocollo panna a costine (naturalmente Gucci), Jannik Sinner non ha l’aria seria e concentrata delle conferenze stampa post partita. Né tantomeno mostra alcun segno del malessere che gli ha precluso la finale contro Alcaraz a Cincinnati. L’atmosfera è leggera e piacevole, al 18° piano del Core, esclusivo club sulla Fifth Avenue a Manhattan, dove il numero uno del mondo ha annunciato venerdì sera la partnership con Explora Journeys, il marchio di viaggi oceanici di lusso del gruppo Msc di cui è diventato global brand ambassador, a conferma che il tennis è il perno di una carriera attorno al quale ruota molto altro. Le sponsorizzazioni, il patrimonio immobiliare, le pubblicità, la fondazione e – come in questo caso – il ruolo di ambasciatore (accade già per Gucci, appunto, Rolex, De Cecco). Il fronte viaggi era scoperto nell’“universo Sinner”: quale luogo più indovinato di New York, con gli Us Open al via (dove è campione in carica), per il battesimo di un altro connubio al cui centro – ha sottolineato lui – è la ricerca del benessere e di quell’equilibrio fondamentale anche fuori dal campo nella vita di un tennista? Una condizione che sperimenterà subito dopo lo Slam americano, quando si concederà qualche giorno di riposo godendosi una crociera nel Mediterraneo, ha aggiunto sorridendo, mentre la presidente di Explora, Anna Nash, ricordava come Jannik incarni i valori del gruppo, dall’autenticità all’eccellenza. Applausi, brindisi, finger food e tanti cellulari in alto a scattare foto e girare video, alla presenza del team al completo – i coach Simone Vagnozzi e Darren Cahill, il manager Alex Vittur, il preparatore atletico Umberto Ferrara, l’ufficio stampa Fabienne Benoit – prima di una chiacchierata in un salottino tranquillo del club. Dove Sinner si è raccontato a tutto campo, mostrando la solita prudenza e ponderatezza quando si parla di tennis, e una naturale semplicità nel soffermarsi sulla vita di tutti i giorni. Un po’ come il suo gioco: composto, pulito, attento nelle geometrie, mai irrazionale.

Ranking ATP: Sinner sempre n. 1, ma Alcaraz si avvicina

Gli allenamenti dei giorni scorsi hanno confermato che sta bene, ha recuperato dopo il virus che ha rovinato l’epilogo del Masters Mille in Ohio, come aveva detto anche nel Media day degli Us Open (dove debutterà martedì 26 contro il ceco Vit Kopriva). Ma non gli interessa partecipare al dibattito in corso sul circuito sovraffollato di tornei, in orari proibitivi, a ritmi senza sosta: «Ci sono delle dinamiche dietro che probabilmente noi non sappiamo. In questo momento è inutile parlarne, alcune cose funzionano, altre meno… non si può raggiungere la perfezione e noi tennisti abbiamo punti di vista differenti. In ogni caso fare un torneo è una nostra scelta, io ho deciso in base a quello che mi può aiutare per il futuro, allo stesso tempo è vero che sono in una posizione diversa. Non andremo mai tutti d’accordo». La sua è la prospettiva di chi ha compiuto un percorso straordinario in pochi anni, con venti titoli Atp all’attivo, inclusi quattro Slam: difenderà quello americano nelle prossime due settimane, nella New York in cui nel 2019 festeggiò i diciotto anni approdando per la prima volta al tabellone principale dalle qualificazioni (perse al primo turno con Stan Wavrinka, cui presto non avrebbe dato più scampo).

Il ragazzino che, tredicenne, era andato da Sesto Pusteria a Bordighera per concretizzare le potenzialità del suo tennis nell’accademia di Riccardo Piatti è diventato un fuoriclasse: una parabola ascendente al di là di ogni aspettativa. Rievoca con affetto i tempi della Liguria, l’adattamento non facile, i primi due anni vissuti con l’allenatore bosniaco Luka Cvjetkovic, la moglie, i due figli e il loro cane: «Presto mi sono sentito parte della famiglia, come un fratello maggiore. Io ne ho uno (Mark, ndr) e so cosa significa, volevo esserlo anche per quei due ragazzi». Un nido acquisito, lontano dai suoi e dai nonni che lo coccolavano con cotolette e canederli, mentre i genitori lavoravano. Un’adolescenza in cui non ha potuto vivere le esperienze dei coetanei: non gli è pesato? Mai un ripensamento? «No, onestamente, perché è stata una mia scelta, in primis; potrei farlo ora, ma non ho voglia. Poi non mi pesa la vita che sto facendo, mi viene tutto abbastanza naturale: prendere un aereo, volare in un altro continente, ormai mi sono abituato. Né mi è mancato quell’aspetto», taglia corto.

Successi costruiti con tenacia

In questa strada costruita con meticolosità e tenacia ripagate da una progressione nei risultati, stagione dopo stagione, ci sarà stato un momento chiave, un successo che ha segnato il cambio di passo e gli ha fatto dire “allora posso davvero farcela”… «Credo non sia solo una partita. Ci sono molte cose da considerare, ho lavorato tanto per arrivare dove sono, allo stesso tempo è un lavoro che non finisce mai», commenta con pacatezza, e quando si cita l’exploit della seconda parte del 2023, con il titolo in qualche modo spartiacque di Pechino (vinse in finale con Medvedev, per la prima volta dopo sei sconfitte: da allora non si è più fermato), ribadisce che farlo vuol dire guardare a valle «i risultati» dietro i quali «ci sono almeno sei mesi» di fatica. Poi certo, se «si esamina il torneo in sé, sì, è vero; subito prima è stato importante anche il traguardo a Toronto, il primo Masters Mille, quindi ho iniziato a vincere altri tornei l’anno dopo (a cominciare dal primo epico Slam, in Australia, ndr), facendo sempre un passo in avanti dal punto di vista della qualità».

Pian piano, è emersa un’arma cruciale, al di là dei colpi, della potenza, della capacità di difendere fino al limite, dei miglioramenti costanti nel servizio: la forza mentale, la freddezza nei punti importanti, l’abilità nella gestione della pressione. Un plus su cui molti suoi colleghi non possono contare. Come ha raggiunto questa condizione? Quanto pesa il mental coach nel suo allenamento? «Pesa tanto, nulla è casuale», risponde senza esitazione. «Ognuno di noi lavora per migliorare sé stesso: per arrivare al punto in cui mi trovo ho dovuto accettare alcuni miei difetti e all’inizio ho fatto fatica». Quali, Jannik? «Non essere paziente, volere tutto e subito. Non era questa la soluzione, bisogna insistere su ogni dettaglio e poi mettere insieme pian piano i pezzi del puzzle. Il che non vuol dire che ora, da numero uno, il lavoro sia completo, ce n’è ancora da fare, ma i progressi sono impercettibili, a volte non sembra di vederli e invece stai andando avanti. Sicuramente il mental coach è importante, lavoro con Riccardo (Ceccarelli, ndr) da tanti anni, è un aspetto da cui volevo partire perché sentivo un piccolo deficit».


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