Il saluto del prefetto che lascia Bolzano dopo 8 anni: “L’autonomia è più viva” – Cronaca
BOLZANO. «Sono otto anni e mezzo, quasi nove…». Vito Cusumano li conta. «A vederli oggi sono tanti, in effetti». Solo Mario Urzì è stato di più a Palazzo Ducale. Per le carriere prefettizie, una vita. E ora se ne va, il commissario del governo a Bolzano dal 28 aprile 2017. «L’ho saputo da poche ore, una sorpresa», dice guardando il suo ufficio con gli stemmi del duca di Pistoia. Cusumano è arrivato – era il 2017 – prendendo il posto di Elisabetta Margiacchi, lascia ora ad un’altra donna, Maddalena Travaglini. «So che è passata da vice prefetto a prefetto. Le parlerò tra un po’».
Il tratto, la postura istituzionale, le parole dette al momento giusto ne hanno fatto un punto di equilibrio riconosciuto da tutti, tedeschi e italiani, maggioranze ed opposizioni. Sempre un passo a fianco, dopo aver costruito quelli in avanti insieme. Non ha mai battuto i pugni sul tavolo?
Se fosse servito, lo avrei fatto. Non è servito. E ora vado a L’Aquila. Nel nostro mondo si tratta di un avanzamento e ne sono felice. È un capoluogo di regione, una città con una storia infinita. Qui lascio una parte di cuore e di me. Ho vissuto giorni intensi.
Belli?
E anche no. Belli quelli che hanno prodotto una svolta. Ad esempio la presenza a Bolzano di due capi di Stato. Al Muro del Lager Austria e Italia hanno tracciato un ulteriore passo di conciliazione e amicizia.
C’erano il presidente Sergio Mattarella e Alexander Van der Bellen.
Ecco, occasioni che offre solo un territorio come questo. Dove si incrociano culture e si cancellano vecchi confini. Molti ancora non si rendono conto di questa ricchezza.
Lei sì?
È stata la consapevolezza di giungere in un luogo così a suggerirmi di chiedere sempre un impegno corale, di non spingere mai solo da una parte. Di suggerire condivisione.
E di praticarla?
Guardiamo ai comprensori. Una realtà che solo qui è a tal punto perfezionata. Sono territori uniti da comuni linguaggi e contesti. Ho voluto starci in mezzo, mostrare lo Stato che parla un linguaggio comprensibile e comune alle popolazioni.
E i momenti difficili?
Il Covid su tutti. Qui forse più complicata che altrove quella stagione. Torno a questa mia idea di vicinanza alle sensibilità così particolari di questa terra. Tutti sappiamo che durante la pandemia ci furono resistenze, in parte dovute anche ad alcune culture qui presenti sul piano degli strumenti di contrasto alla pandemia.
Ebbene?
Ho provato a non sfondare muri, ma a comunicare, a contemperare le esigenze reali sul piano sanitario alle sensibilità di alcuni. Senza creare tensioni sociali. Anche perché si avvertiva in quei giorni il rischio di incidenti. Ma andando dritto sui protocolli.
A proposito di sensibilità anche politiche, in Alto Adige ci sono partiti che non vedono lo Stato italiano come un punto di riferimento, usando un eufemismo…
Lo so. Ma anche con questi gruppi ho mantenuto rapporti di lealtà e ho chiesto collaborazione.
L’ha ottenuta?
Sì. E anche la correttezza istituzionale. Ognuno con le sue idee, ma Palazzo Ducale è un luogo di dialogo.
Come è andata con il presidente Arno Kompatscher?
Beh, un gran bel rapporto. Ho poi avuto la fortuna di avere sempre avuto un unico interlocutore al vertice della Provincia. Questo aiuta a programmare e serve ad avviare automatismi anche nei rapporti personali.
Momenti critici?
Ricordo le frane in Venosta. Abbiamo messo a disposizione elicotteri e uomini, anche in quel caso muoversi insieme è servito a evitare tragedie più grandi e salvare le persone. Poi c’è stato un altro episodio che ha messo alla prova la macchina ma ha consentito anche di sperimentare nuovi modelli di sicurezza. Il concerto di Jovanotti, 20 mila persone da gestire, rischi di ammassamenti e incidenti. La sinergia tra noi, forze di polizia, Provincia ha fatto di Plan de Corones un caso di scuola. In positivo.
“Jova Party” in quota, era l’agosto del 2019?
Il 24. Me lo ricordo ancora.
Sul piano della sicurezza come ha trovato Bolzano e l’Alto Adige quando ci è giunto e adesso?
Sono aumentati gli strumenti a disposizione. Sia quelli tecnici, penso alle telecamere che allora era pochissime e che adesso sono una rete che consente di aiutare tutti, prima e dopo i fatti. E poi gli strumenti amministrativi. Cito solo la collaborazione coi comprensori e le istituzioni locali, i meccanismi dei tavoli congiunti per la sicurezza. Non ultima la proiezione locale della sicurezza stessa. Oggi oltre alle forze dell’ordine si è attivata la presenza dei sindaci, come responsabili, e della polizia locale. Un grande passo.
In cosa differisce il suo ruolo di commissario del governo rispetto alla ordinarie prefetture?
C’è in più l’essere garante dello Statuto. E dunque dell’autonomia. Un compito specifico sul piano della sussidiarietà e della leale collaborazione.
Come va l’autonomia?
Io vedo lo Statuto vivo se viene costantemente attualizzato. Non è un corpo di norme rigido, giusto segua l’evoluzione della società e le sue esigenze. E lo si fa correttamente con un altrettanto corretto rapporto con lo Stato.
Che cosa dicono in famiglia?
Che si preparano a farmi visita a Natale. Mia moglie Rosa è sempre con me, arriveranno anche Pietro e Ines, che ha il nome di mia mamma e Maria Teresa, che si chiama come la mamma di mia moglie.
È stata notata anche sugli spalti del Druso. Tifava Südtirol?
Ecco, questo intendo con lo stare dentro la vita di qui. Lo sport è un bel modo di farlo. Come, adesso, lavorare per un buon risultato delle Olimpiadi. E non solo sul piano sportivo.
Un rammarico?
Non aver imparato bene il tedesco. Di essere incerto. Parlo sempre in italiano perché nel mio ruolo anche una virgola sono importanti più che altrove. Non potevo permettermi di essere frainteso. Mi dispiace proprio.



