Il primato perduto della libertà individuale
Tra le grandi conquiste dello Stato di diritto vi è, senza dubbio, il primato della libertà individuale. Questa conquista dovrebbe essere patrimonio trasversale di tutte le culture politiche contemporanee, conservatrici o progressiste che siano. Almeno a partire dalla fine del XVIII secolo, la sottoposizione del potere alla legge (rule of law) ha sempre avuto, come contenuto sostanziale, l’idea-forza che l’ingerenza dello Stato nelle sfere individuali dovesse essere garantita da una chiara previsione legislativa, giustificata razionalmente e soprattutto riservata a situazioni in cui quella ingerenza appaia strettamente necessaria. E ciò, specie quando l’intervento del potere pubblico assume la forma più invasiva per i diritti fondamentali, limitando le sfere di libertà attraverso l’imposizione di pene: di qui i principi-guida di sussidiarietà e di extrema ratio attorno ai quali – da oltre due secoli – si raccoglie la legittimazione del diritto penale.
Questi principi appaiono ormai in stato di conclamato abbandono: l’ideologia dominante – quale che sia la maggioranza politica di turno – vede il diritto penale come lo strumento salvifico per contrastare ogni problema o irritazione sociale, e l’introduzione di nuovi reati viene affermata come emblema di efficienza ed interventismo statale, spesso lucrandone immediati profitti in termini di consenso elettorale.
Non si tratta di negare, in principio, la capacità del legislatore democraticamente eletto di intercettare le richieste di protezione che provengono dalla società. Si tratta però di constatare come, anche in Italia – ormai da anni e ad opera di maggioranze di ogni colore – a politica-criminale è stata risucchiata nel gorgo del populismo punitivo, che ha eletto il diritto penale quale apripista nella “lotta” contro emergenze reali o presunte, e che celebra i suoi fasti ora sull’altare della sicurezza pubblica (il c.d. populismo securitario), ora sul capezzale di vecchie e nuove “vittime” (il c.d. perbenismo punitivo), la cui soddisfazione si affida non alle politiche sociali bensì – con comodo disimpegno – alla illusoria introduzione di nuovi reati o di sistematici aggravamenti di pena.
Su questa china, il gigantismo del diritto penale – travolgendo le libertà individuali – è giunto a tali livelli che nessuno è mai riuscito davvero a quantificare con certezza il numero di reati vigenti nel nostro paese: diverse (decine di) migliaia, cifra perennemente insatura che avanza in proporzione geometrica, giorno per giorno, sotto sollecitazioni politiche di ogni bandiera.
Le conseguenze di questa deriva panpunitiva e carcerocentrica sono del resto sotto gli occhi di tutti, testimoniate da una sempre crescente popolazione penitenziaria che tocca ormai livelli di sovraffollamento (oltre il 130% di media) indegni di un paese civile, e chiaramente incompatibili – come ci ricorda dolorosamente l’assillante numero di suicidi in carcere – con il principio di umanità della pena. Sennonché, il commiato dal principio che vede nella pena (e nel carcere) l’ultima ratio tradisce, a monte, il definitivo congedo dal primato riconosciuto – da una tradizione secolare – alla libertà individuale: un primato ormai perduto e che, ribadiamo, dovrebbe invece far parte della “cultura delle garanzie” di qualunque maggioranza politica si trovi al governo del Paese. Il prezzo che quel commiato rischia di imporci è l’involuzione del nostro Stato di
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