«Il pianto degli eroi», la guerra quotidiana di chi sta in carcere
«Il Pianto degli eroi (prodotto da IULMovie Lab e sostenuto e reso possibile dalla direzione del carcere di Bollate, dalla Coop.Sociale Articolo3, dal Ministero di Grazia e Giustizia e dall’organizzazione esecutiva di Altamarea Film, ndr) è un film che nasce principalmente da un’esigenza artistica, ma con molteplici intenti intrecciati. La nostra intenzione era quella di portare in scena la tragedia dell’Iliade; non solo per raccontare un conflitto universale ma per provare a parlare di guerra, lotta, sofferenza e resistenza. Tutto questo utilizzando un linguaggio che fosse in grado di fare i conti con la realtà vissuta dai detenuti, che in qualche modo la guerra la vivono ogni giorno, ma anche con la riflessione estetica e critica che il cinema ci permette», così la regista e videoartista Francesca Lolli racconta Il pianto degli eroi, il film che ha realizzato con Bruno Bigoni e che vede coinvolti diversi detenuti del Carcere di Bollate: «Avere l’opportunità di poter creare questo film all’interno del carcere è stata un’esperienza di straordinaria creazione collettiva. Abbiamo lavorato a lungo con i detenuti, formandoli prima fisicamente attraverso un laboratorio di arte performativa per poi passare alla riscrittura del testo in diverse lingue (tra cui arabo, siciliano, napoletano, spagnolo, inglese). Il momento in cui abbiamo acceso la telecamera è stato, in qualche modo, la naturale conclusione di un lungo percorso dove ogni scena è diventata un atto di restituzione, una sorta di “liberazione” dalle mura fisiche e psicologiche del carcere», spiega Francesca Lolli, impegnata a distribuire l’opera nei Festival, nelle scuole e nelle carceri, perché si sappia, perché si impari, perché si pensi.
L’intervista a Francesca Lolli, la regista, insieme a Bruno Bigoni, del film «Il pianto degli eroi»
Quale «firma» avete messo voi? Qual è la cifra del vostro lavoro?
«La nostra “firma” è la mescolanza tra linguaggi, la fusione tra il cinema del reale di Bruno e la mia esperienza nella video arte e performance. Il nostro approccio al film è stato un “dialogo continuo”, un ascolto reciproco. Se il cinema del reale di Bruno si fonda sulla verità della quotidianità, sulla rappresentazione di esperienze reali senza filtri, io ho portato nel progetto il linguaggio della video arte, che si nutre di astrazione, sperimentazione visiva e interpretazione simbolica. Il risultato è un film che non è mai solo “documentario” e nemmeno solo “finzione”, ma un’ibridazione di questi linguaggi. Ogni scena porta con sé un’energia viva che viene dal contesto e dai corpi che la abitano».
Avevate mai lavorato con i detenuti? E, dopo questa esperienza, pensate che si possano aprire nuove strade e nuove collaborazioni?
«Questa, per me, è stata la mia prima volta, non avevo mai lavorato all’interno di un carcere e, oltre all’intensità e alla bellezza della collaborazione con i detenuti, ha avuto su di me un impatto straordinario. Mi ha reso ancora più chiara l’idea che l’arte, in qualsiasi forma, è uno degli strumenti più alti per la realizzazione e la cura della propria identità. C’è un’incredibile verità nelle performance degli attori / detenuti, una grande potenza espressiva. È come se, attraverso il cinema, avessero riscoperto la possibilità di raccontarsi in modo autentico, di ritrovare quel sé che noi tutti, in un modo o nell’altro, rischiamo di perdere di vista durante la nostra vita. Bruno Bigoni, invece, aveva già avuto un’esperienza significativa con i detenuti venti anni fa, quando girò il film Riccardo all’interno del carcere di Bollate, adattando Riccardo III di Shakespeare. Personalmente, sto già lavorando a un progetto di video arte per il prossimo anno.
Mettere insieme gli studenti e i detenuti… Che cosa ha innescato questo incontro?
«Questo incontro ha innescato un processo di umanizzazione reciproca. Gli studenti dello IULM, spesso abituati a lavorare su concetti teorici e distanti dalla realtà di un carcere, hanno avuto modo di confrontarsi con una realtà molto diversa, estremamente e intensamente ricca di vissuti. E i detenuti, spesso etichettati e marginalizzati dalla società, hanno avuto l’opportunità di essere visti per ciò che sono: esseri umani con una storia, con emozioni, con uno straordinario potenziale che a volte nemmeno loro stessi riconoscono. E poi ci sono le attrici che interpretano le Troiane, che hanno portato con sé una sensibilità unica, che ci ha permesso di esplorare e mettere in luce la forza e la vulnerabilità di questi personaggi, costantemente oggetto di violenza, ma anche di grande dignità e forza. Abbiamo voluto dare spazio al punto di vista femminile sulla guerra, perché, troppo spesso, questa viene raccontata dal solo punto di vista degli uomini in termini di azione, conquista e potere. Le Troiane sono invece il volto opposto: sono vittime di un conflitto che non hanno scelto, ma che le distrugge e le umilia. In questo modo, il film è anche un’occasione per interrogarsi sul ruolo delle donne nei conflitti, sulla loro costante rappresentazione come vittime, ma anche sulla loro capacità di lottare per la propria dignità e per la pace».
Avete scelto di parlare di guerra, attraverso dei testi classici, di Omero e di Euripide: perché avete pescato da storie così lontane pur avendo, tristemente, esempi contemporanei?
«La guerra è un tema universale, che attraversa tutte le epoche e tutte le culture. Quello che abbiamo trovato straordinario nell’Iliade e nelle Troiane è la loro capacità di raccontare, in modo tanto drammatico quanto lucido, la follia del conflitto e i suoi effetti devastanti sulla psiche umana. Queste opere ci hanno permesso di entrare in una dimensione simbolica che, pur trattando di eventi lontani nel tempo, non perde mai la sua forza emotiva. La storia si ripete, e la guerra rimane una costante nella nostra vita. Affrontare questo tema in un carcere, dove ogni persona vive la propria “guerra” interiore, ha reso il film una riflessione potente su come il conflitto, in tutte le sue forme, sia qualcosa di innato, ma anche di estremamente distruttivo e alienante. Il carcere diventa, quindi, una sorta di “microcosmo” della guerra, dove si combattono battaglie quotidiane, ma dove, allo stesso tempo, l’arte e il cinema possono essere potenti strumenti di espressione e di trasformazione».
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