Il patto surreale delle radici storiche

C’è una frase dell’altro giorno di Vladimir Putin sull’ambizione di Donald Trump di acquisire la Groenlandia che chiarisce la nuova filosofia con cui le grandi potenze si approcciano al mondo. Quando The Donald tirò in ballo la questione insieme alla riconquista del canale di Panama, sembrava che fosse la solita boutade. Poi, pochi giorni fa, l’inquilino della Casa Bianca ha rintrodotto il tema con più vigore e subito dopo c’è stata la notizia del viaggio dei coniugi Vance, il vicepresidente Usa, nell’isola dell’Artide. Un interesse esagerato e ripetuto che ha addirittura spinto il Parlamento locale, fresco fresco di elezione, a dar subito vita ad un governo di unità nazionale per opporsi al progetto. Il fatto che ha reso incandescente una vicenda che sembrava una barzelletta è stato però il commento di Putin di due giorni fa. Una benedizione: «Non sono discorsi stravaganti. I piani sulla Greonlandia hanno radici storiche di vecchia data». Putin, insomma, ha preso alla lettera i desideri di Trump. E ha affrontato la questione con tanta sicumera da far sorgere il dubbio che il tema sia stato trattato nel colloquio tra i due di qualche settimana fa. Anche perché le parole dello Zar avevano il sapore di una legittimazione delle mire del Presidente americano. Di più: con la furbizia luciferina da ex-Kgb l’uomo del Cremlino ha argomentato il suo mezzo assenso con la stessa logica con cui ha motivato l’aggressione all’Ucraina: «radici storiche». Una sorta di equazione. Per lui come l’Ucraina non è una nazione ma territorio russo, la stessa cosa si può dire sulla Groenlandia e gli Stati Uniti.
Le similitudini tra le due vicende non mancano. L’Ucraina è stata aggredita anche perché non aveva una copertura internazionale, era una pecorella smarrita fuori dalla Nato e dall’Unione Europea. Il lupo del Cremlino, se non ci fosse stata l’eroica resistenza di Kiev, non avrebbe subito rappresaglie. La Groenlandia, ugualmente, è una regione autonoma della Danimarca che ha scelto di non aderire alla Ue. Per cui se The Donald ci provasse davvero avrebbe una complicazione in meno. Ciò che stupisce rispetto al passato e che ti fa capire quanto il mondo sia cambiato, è l’aureola di normalità con cui chi governa le grandi potenze decide di aggredire un’altra nazione o non nasconde l’intenzione di accaparrarsi unilateralmente dei territori che ritiene strategici. Putin voleva il Donbas per le terre rare ? Non ci ha pensato due volte a prenderlo. Trump brama i minerali della Groenlandia? Ebbene non ha nessuna remora a dichiarare che vuole allungare la mano. In questa logica il diritto internazionale, i confini, l’indipendenza dei territori, l’autodeterminazione dei
popoli, il rispetto delle alleanze sono minutaglie. Siamo tornati alla forza, alla forza bruta, sotto il cappello delle «radici storiche» magari estratte da un bignamino internazionale. Per Putin la Rus di Kiev è lo Stato che diede i natali alla Russia di Mosca, russi e ucraini per lui sono la stessa cosa: una faccia, una razza. Va a vedere che Trump un domani tirerà fuori che il vichingo Leif Erikson, figlio di Erik il Rosso (stessa capigliatura fiammante di Donald e primo colonizzatore della Groelandia), era arrivato in America 500 anni prima di Colombo. A dimostrazione, Putin docet, che l’America e l’isola artica hanno «radici storiche» comuni.
Solo che a pensarci bene – e un brivido ti sale su per la schiena – le «radici storiche» dei territori furono alla base delle grandi tragedie dello scorso secolo.
Hitler diede il via alla seconda guerra mondiale rivendicando per ragioni etniche i Sudeti dalla Cecoslovacchia e Alta Slesia e Danzica dalla Polonia. Tornando a noi si può scommettere che per «radici storiche», come Putin con l’Ucraina e Trump con la Groelandia, appunto, Xi tornerà presto a reclamare con maggiore tracotanza Taiwan per sé.
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