Il Mostro, la recensione della serie Netflix sul mostro di Firenze
Raccontare il Mostro di Firenze senza cadere nella trappola della mitizzazione è quasi impossibile. Ogni volta che si riapre quella storia terribile riaffiorano le stesse immagini: i fascicoli ingialliti, le foto in bianco e nero, la voce del giornalista del tg che pronuncia la parola «mostro». Stefano Sollima decide di affrontare la vicenda, tra le più inquietanti della cronaca italiana, con eleganza sobria e coraggio, scegliendo una via radicalmente diversa. Evita il sensazionalismo, respinge la mitologia criminale, disinnesca ogni delirio investigativo. Con Il Mostro, la sua nuova serie per Netflix presentata alla Mostra del cinema di Venezia, sposta l’attenzione dal colpevole alla collettività, da chi ha ucciso a chi ha guardato. Il risultato è un racconto che indaga la paura, ne segue la scia attraverso il tempo e mostra come sia arrivata fino a noi.
Tra il 1968 e il 1985, una serie di omicidi brutali sconvolse la Toscana. Otto coppie vennero assassinate nei dintorni di Firenze, sempre con la stessa pistola Beretta calibro 22, sempre in luoghi isolati, mentre le coppie si appartavano in auto. Una scia di sangue che per quasi vent’anni paralizzò il Paese, alimentando teorie, depistaggi e paure. L’assassino (o gli assassini) non fu mai identificato con certezza, ma la storia del Mostro di Firenze entrò nella memoria collettiva italiana come uno dei più grandi misteri irrisolti del Novecento. Ed è proprio da qui che Sollima parte, non per ricostruire un colpevole, ma per raccontare come il mistero sia diventato un racconto nazionale.
La serie, composta da quattro episodi, attraversa le varie piste che hanno segnato le indagini, concentrandosi in particolare sulla cosiddetta «pista sarda», quella che portò a una lunga e controversa catena di processi. Sollima sceglie di raccontare non tanto chi siano i presunti colpevoli, ma come ogni ipotesi diventi un racconto autonomo, capace di generare nuove ossessioni e nuove colpe. La narrazione si ferma sulle prime fasi dell’inchiesta, prima che entrino in scena Pietro Pacciani e i cosiddetti «compagni di merende». Le loro figure compaiono, come ombre, solo nel finale. E così, Il Mostro mostra l’origine del sospetto, la costruzione sociale della colpa, l’inizio di quella paura collettiva che avrebbe poi alimentato anni di processi, teorie varie e titoli di giornale.
Più che una cronaca, la serie è un viaggio dentro il nostro immaginario. Sollima prende una vicenda che tutti crediamo di conoscere — gli omicidi che tra gli anni Sessanta e Ottanta terrorizzarono la Toscana — e la trasforma in uno specchio. Ci mostra il riflesso di un Paese che vive ancora sospeso tra fede e diffidenza, giustizia e vendetta. Il regista non cerca il colpevole, ma osserva il desiderio di trovarlo, quella febbre che spinge una comunità a dare un nome alla paura.
La regia si muove per sottrazione, senza cliffhanger né dettagli cruenti o estetiche da thriller. Sollima lavora sul ritmo del respiro, sull’attesa, sul silenzio. I dialoghi sono pieni di pause, di frasi che si interrompono, di sguardi che dicono più delle parole. L’Italia che racconta è quella profonda, ignorante e maschilista che si nasconde dietro le persiane. È la provincia che osserva e giudica, e che per difendersi dalla paura finisce per alimentarla.
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