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Il mercato globale che sfugge dalle tasse

L’accordo sui dazi tra Stati Uniti ed Europa contiene ancora dei punti da definire e chiarire, nonostante la sua entrata in vigore. Ma non solo. Fino a qualche settimana fa circolavano addirittura due versioni del testo : una degli Stati Uniti e l’altra della Commissione europea. Tanto per cominciare non si comprende ancora se il Vecchio Continente intenda procedere su una possibile digital services tax comune tra i Paesi UE per la tassazione delle big tech.

Il portavoce europeo Olof Gill ha affermato che “non cambiamo le nostre regole e il nostro diritto di regolamentare lo spazio digitale”. Alla fine ritengo che l’Unione congelerà la fattibilità di una web tax europea per abbassare ancora di più possibilità di scatenare una vera e propria guerra commerciale con l’America . Fatto sta che essa risulta assente nel bilancio pluriennale Ue 20282034.

Di questa materia si discute da anni, a livello internazionale, europeo e nazionale. Anche per la mia personale esperienza di parlamentare penso si possa affermare che nessun governo americano nel corso degli anni ha visto di buon grado la tassazione dei colossi del digitale.

Introducemmo la web tax con Legge n. 205/17, ma non senza problemi sia con alcuni stati europei che con gli Stati Uniti. Norma successivamente abrogata dalla legge n. 145/18 e sostituta dalla Digital service tax, modificata con la legge di bilancio 2020. Attualmente è un’imposta nazionale che si applica nella misura del 3 per cento sui ricavi derivanti dalla fornitura di servizi digitali a utenti residenti in Italia. Tuttavia, per questa misura è prevista una sua futura abrogazione, da quando entreranno in vigore disposizioni a livello sovranazionale, elaborate dall’OCSE.

La norma nazionale infatti non è esente da problematiche di applicazione e di armonizzazione con il nostro tradizionale sistema fiscale.

Ricordo ancora le discussioni in sede parlamentare sul concetto di “stabile organizzazione” per evitare tentativi di elusione delle aziende globali di economia digitale e per non coinvolgere in una tassazione aggiuntiva le imprese nostrane.

Diversi sono i concetti di “aterritorialità” e dell’introduzione di una consistente “presenza economica” dei soggetti non residenti nel contesto sociale e produttivo del Paese dove si producono profitti.

In effetti, l’esigenza di impedire che le multinazionali della new economy vadano esenti da qualsiasi prelievo alla fonte, ha portato le istituzioni internazionali ad interrogarsi sull’opportunità di modificare gli indici della presenza fiscalmente rilevante di un’impresa entro i confini di uno Stato.

Si è suggerito, perciò, di affiancare all’idea di insediamento materiale, quella di ingerenza economica significativa in vista dell’accertamento fiscale .

L’intera materia può essere inquadrata nel più generale argomento che potremo definire di “globalizzazione non governata”. Da quando si sono sviluppate le economie digitali le organizzazioni internazionali avrebbero dovuto inventare sistemi fiscali diversi validi per tutti, Cina compresa e trovare il modo di metterli in atto.

Gli ultimi dati di Agcom Italia ci dicono che l’Italia si digitalizza, ma in modo diseguale, la pubblicità online aumenta del 6,2 per cento, a vantaggio naturalmente dei colossi del web.

L’Europa dovrebbe dunque promuovere una maggiore parità contributiva tra tutte le imprese, rendendo il quadro più bilanciato e sostenibile per tutti i soggetti coinvolti, immaginando una nuova governance internazionale della fiscalità, in ragione del cambiamento dell’economia.

È questo un tema politico mondiale che va oltre le nostre regole di imposte nazionali, di quelle eventuali europee di digital tax e l’amministrazione Trump.


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