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Il Mago del Gelato: «La musica alternativa esiste, anche d’estate, ma nessuno la racconta. Sanremo? Ancora non è pronto, ma magari lo sarà»

C’è una musica da ballo che spegne il cervello, la sentiamo spesso, e una che l’accende. Chiedere, per questa, a Il Mago del Gelato, quattro ragazzi di base a Milano che mischiano il funk-jazz di oggi ad atmosfere simili alle colonne sonore anni Sessanta. E provare, per credere, il loro disco d’esordio Chi è Nicola Felpieri?, sorta di sonorizzazione di un film immaginario («Sta all’ascoltatore, con la sua fantasia, metterci le scene») in cui è impossibile restare fermi, con ospiti tra gli altri Venerus e che ora ha un’appendice in L’anguria, pezzo per la bella stagione che sembra uno spot dell’epoca, o la celebre Mah-nà mah-nà di Piero Umiliani. Titolo ambiguo, sui social l’anguria, per i suoi colori, è il simbolo della Palestina. Sibillini: «Noi ci siamo mossi prima. Ma quando le due cose si sono intrecciate… abbiamo preferito lasciarlo com’era». Nel dubbio, l’invito è soprattutto di andarli a sentire in concerto, per esempio il 3 agosto a Napoli per Musica al Castello e il 13 a Locorotondo al Locus Festival. Mentre tutto viaggia online, questi qui, alternativi veri, danno ancora il meglio su un palco. «C’interessa solo far ballare la gente», dicono.

Parentesi: perché vi chiamate Il Mago del Gelato?
«È l’insegna di un bar a via Padova, a Milano, dove passavamo tutte le mattine per andare in studio: ora ha cambiato gestione e nome, ma allora c’ispirava perché era un crocevia di culture diverse, dai milanesi qualsiasi al ragazzo marocchino, per dire, che non parlava una parola in italiano, ma che comunque ci serve al bar. La contaminazione arricchisce, nella vita e nella musica».

Ma al proprietario dell’epoca l’avete detto?
«Ci abbiamo provato varie volte. “Ma lo sa che abbiamo un gruppo che nel nome…”, non facevamo in tempo a finire che lui tagliasse corto per chiederci quanti caffè volessimo».

Dicevate di far ballare il pubblico. Come si fa?
«Puntiamo sul groove e sull’istinto. Se in studio un pezzo fa muovere noi o qualcuno del nostro team, ecco, è quello giusto. Siamo a metà tra il club moderno – e quindi una situazione notturna, con musica sintetica – e la balera di una volta, quella tutta suonata, con il liscio e generi simili. Stare sul palco è fondamentale: siamo partiti tre anni e mezzo fa proprio con questa idea».

Permettete però, ora i palchi sono sempre meno, tranne quelli giganti: stadi, palasport, grandi arene.
«Ed è paradossale, perché tra le nuove generazioni c’è grande voglia di far festa in contesti a misura d’uomo. E poi c’è voglia di musica suonata dal vivo, come la nostra. Poter vedere sette, magari, persone diverse su un palco, ciascuna sul suo strumento, con un impatto fisico forte sul suono – pensiamo alle trombe – è tutta un’altra cosa dell’assistere allo show di un artista con lui da solo e la base sotto. Poi, per carità, tante band si riducono al solo frontman e al resto come tappezzeria, ma non è il nostro caso: siamo liquidi in questo, non ce n’è uno che svetta».

E quindi, che succede ai vostri concerti?
«Si balla. Ciascuno come vuole, senza giudizi, senza l’ansia d’apparire o farsi vedere. E si dialoga: l’urgenza è di abbattere un po’ di pareti che, anche a causa dei social, ci siamo costruiti intorno; e di immaginare uno spazio di condivisione e libertà con il pubblico».

Guardiamoci intorno: Il Mago del Gelato nuota controcorrente?
«Mah. Oggi sì, ma non ci stiamo inventando niente: band come le nostre ci sono sempre state, certo adesso sono nascoste da un sistema che, diciamocelo, disincentiva scelte così. Ma l’underground, a cui noi apparteniamo, esiste: è quello dei festival, del pubblico live e il resto. Il punto è che fatica a essere riconosciuto, raccontato. È un problema di percepito: ci siamo convinti che gli artisti forti siano quelli con tanti streaming, e non è che siano scarsi, eh, ma sono due indicatori diversi; c’è chi spacca in concerto e non per questo, senza grandi ascolti, è inferiore, anzi. Il problema è il canale su cui essere distribuiti, che non può essere Spotify, che privilegia quell’altro tipo di musica».

Qual è allora il vostro?
«Il passaparola. I concerti appunto, lo stringere la mano ai fan alla fine dei live, stare al banchetto dei dischi. Sta nascendo – è già nata – una nuova scena da lì: Studio Murena, Bassolino, gli stessi Nu Genea».

Nella vostra musica ci sono tanti anni Settanta. Paura di essere dei retromaniaci, nessuna?
«La musica dell’epoca – dal progressive a quella brasiliana – è la nostra passione, ma cerchiamo di restare moderni. Banalmente, usiamo l’autotune e il vocoder. Certo, all’epoca si sentivano colonne sonore bellissime, con professionisti straordinari, ma non è vero che la musica sperimentale, oggi, è morta. Anzi, ce n’è più di allora. Il problema, di nuovo, è che non arriva al pubblico».

Nicola Felpieri chi è?
«È il protagonista del nostro disco, quello attorno a cui ruotano tutte le canzoni e le storie. Ma è un protagonista inconsapevole e immaginario: non esiste nella realtà – abbiamo fatto le opportune verifiche – e vive vicende che ciascuno immagina ascoltando l’album, senza una trama già definita. Le colonne sonore degli anni settanta sono state d’insegnamento, perché erano molto stimolanti nel far immergere lo spettatore in una determinata scena: qui avviene il contrario, la musica viene prima e l’ascoltatore s’immagina le scene, ma il meccanismo, per quanto ribaltato, è lo stesso».

L’anguria, infine, non è il solito pezzo estivo: un’alternativa è possibile?
«Sì, abbiamo immaginato una canzone bella fresca – come un’anguria, appunto – ma con dentro i suoi semi, le sue spigolature. Insomma, non volevamo la solita cassa dritta, così abbiamo puntato su un groove storto. Sono tecnicismi, sì, ma sono alla base della nostra spontaneità poi».

Per chiudere, domanda da un milione: Sanremo, ve la sentireste?
«Noi sì, assolutamente. Ma probabilmente non se la sente la direzione artistica, anche se un podio come quest’anno, con Brunori Sas e Lucio Corsi, è un ottimo endorsement per la musica alternativa. Vediamo: per ora l’Ariston non crediamo sia pronto, magari tra qualche anno lo sarà e, oltre a noi, parteciperanno anche altri gli gruppi di questa scena, che si sta affermando».


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