Il finto liberalismo dei veri illiberali
Nella Guerra Fredda si sono scontrate due ideologie globali. Pensava globale il comunismo, progetto complessivo di ricostruzione dell’ordine politico, economico e sociale in ogni angolo della Terra. E pensava globale il liberalismo, sognando un pianeta popolato di democrazie che, sempre più benestanti grazie al commercio e alla tecnologia, avrebbero risolto in pace ogni dissidio, sedendosi intorno ai tavoli delle istituzioni multilaterali.
Dopo il 1989 è rimasta in campo una sola ideologia globale. È quello che cercava di dire Francis Fukuyama con la famosa tesi della fine della storia: non che gli eventi avrebbero smesso di susseguirsi, ma che aveva trionfato per sempre un modello universale di organizzazione delle cose umane. Il modello in effetti aveva trionfato, ma non per sempre: avrebbe raggiunto lo zenit alla fine del millennio per poi cominciare a declinare. Un declino in parte determinato dal suo stesso successo, per paradosso, dalla crescita straordinaria che avrebbe donato ai Paesi extraoccidentali. Ma in parte pure da una ribellione delle particolarità storiche, geografiche e culturali contro un processo d’integrazione e di conseguenza omogeneizzazione della Terra troppo rapido e violento. Morto il comunismo, gravemente indisposto il liberalismo, viviamo oggi sul pianeta più globalizzato della storia ma non abbiamo un pensiero globale con cui pensarlo: ecco in sintesi la crisi che stiamo vivendo. È in questo contesto che dobbiamo interpretare quanto è avvenuto negli ultimi giorni in Cina, il summit della Shanghai Cooperation Organization (SCO) e le celebrazioni a Pechino dell’ottantesimo anniversario della fine della Seconda guerra mondiale.
Le ambizioni globali di queste iniziative sono esplicite. «La storia ci ammonisce: il destino dell’umanità è comune», ha dichiarato Xi Jinping alla parata della vittoria. «Gli Stati membri chiedono che sia rispettato il diritto di ciascun popolo di scegliersi in autonomia il proprio percorso di sviluppo politico, economico e sociale», leggiamo nella dichiarazione di Tianjin che ha concluso l’incontro della SCO; «il rispetto reciproco della sovranità, dell’indipendenza, dell’integrità territoriale… sono essenziali allo sviluppo ordinato delle relazioni internazionali». Come ci segnala proprio questa frase, d’altra parte, l’ideologia chiamata a legittimare le ambizioni globali della Cina altro non è, ancora una volta, che quella liberale. Non per caso, nelle pagine successive la dichiarazione di Tianjin rincara la dose: «Gli Stati membri… sostengono la centralità delle Nazioni Unite nel coordinare la costruzione di un mondo più rappresentativo, democratico, e giusto… riaffermano la natura universale, indivisibile, interdipendente e interrelata dei diritti umani, il rispetto per i diritti umani e le libertà fondamentali».
Non c’è dubbio che l’Occidente sia stato impari ai valori liberali che propagandava. Inevitabilmente, vien da dire: il sogno liberale è molto ambizioso e il mondo reale molto complicato. Non c’è dubbio che abbia coperto questa sua inadeguatezza con dosi abbondantissime di ipocrisia. Ma i nostri limiti e le nostre ipocrisie di occidentali impallidiscono di fronte al cinismo di un documento che, portando fra le altre le firme di Cina, Iran e Russia, chiama al rispetto della sovranità, dell’integrità territoriale, dei diritti umani, della democrazia e delle libertà fondamentali.
Pur spinto da ambizioni globali, il non-Occidente non sembra affatto avere una vera ideologia globale, insomma, ma imita strumentalmente quella occidentale, volgendola contro l’Occidente. Come ai tempi di Fukuyama, in campo c’è ancora un solo vero pensiero universale, per quanto malconcio, ed è quello liberale. Che è diventato però il cavallo di Troia delle potenze illiberali. Si capisce allora la tentazione di Donald Trump di abbandonarlo del tutto per seguire il puro e semplice interesse nazionale americano. Ma si capisce pure chi fa il ragionamento diametralmente opposto, sostenendo che la vera forza dell’Occidente consiste proprio nel suo monopolio della capacità di pensare il mondo per se stesso e per gli altri.
Scriveva ieri su queste pagine Ferdinando Adornato che oggi più che mai l’Occidente deve restare unito. È sacrosanto, ma non basta.
Dovrebbe pure compiere un immenso sforzo culturale per ripensarsi nelle nuove circostanze storiche, per ritrovare un equilibrio fra la difesa dei propri interessi e la proposta di un nuovo ordine mondiale. Purtroppo è uno sforzo del quale, in democrazie sempre più isteriche e polarizzate, non mi sembra si intravedano ancora i segni.
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