Salute

Il dissenso oggi è messo fuori legge. L’invito ad astenersi al referendum n’è un esempio clamoroso

di Sara Gandini e Paolo Bartolini

In pochi hanno colto che il punto nevralgico della “questione pandemica” su cui ci siamo intrattenuti più e più volte, atteneva alla nuova criminalizzazione e gestione autoritaria del dissenso. Temi importanti come il dispositivo biopolitico del greenpass e l’affidabilità (elevata per alcune fasce di popolazione, molto meno per altre) dei vaccini di nuova generazione, hanno catturato il dibattito come attrattori gravitazionali. Nel mentre la posta in gioco andava oltre i singoli contenuti, rivelando la postura prevalente del neoliberalismo di guerra: alla luce degli ultimi cinque anni, e dell’attuale delirio pro-riarmo fomentato dalle élite europee, è bene chiamare così questa fase del tecno-capitalismo contemporaneo.

Come disinnescare qualunque dissenso articolato che potesse mettere in discussione il pilota automatico della governance neoliberale, è stato il fulcro di molti comportamenti assunti dai decisori politici. Profitti crescenti ai privati, controllo sui cittadini (spesso colpevolizzati o chiamati all’ordine sacrificale richiesto dall’Emergenza), squalificazione del sapere critico scientifico, colonizzazione della stampa e di tutti i canali comunicativi (propaganda massiccia e capillare): questi sono stati i principali vettori di una politica al servizio dei mercati, incline a spegnere sul nascere il conflitto sociale e le istanze di giustizia che esso porta con sé.

Eccoci allora, un passo alla volta, fino al decreto “paura” approvato in Parlamento dalla maggioranza. Con la scusa della “sicurezza” (parola equivoca e tossica se scollegata da azioni concrete di tutela delle classi più deboli e di ridistribuzione della ricchezza verso il basso) un governo apertamente ostile alla Costituzione inaugura un periodo buio per la nostra democrazia. Il dissenso, già fortemente compresso anche da compagini politiche “progressiste”, oggi è messo fuori legge nei fatti. Altre idee nocive come il premierato, tanto caro alla presidente del Consiglio, vanno in direzione di una completa disarticolazione dei bilanciamenti istituzionali che, proprio grazie alla Costituzione antifascista, erano stati pensati per limitare il potere dell’esecutivo e le tentazioni autoritarie.

Questa torsione pericolosissima avviene – e non stupisce – con una maggioranza di destra al governo, eppure la ciliegina avvelenata poggia sulla torta preparata in modo bipartisan dalla quasi intera classe politica italiana, la stessa che in piena crisi sanitaria ha ritenuto opportuno oscurare o criminalizzare le opinioni sgradite, creando una voragine tra popolazione e autorità. Ne è conseguito un effetto rovinoso che riguarda anche la cosiddetta “area del dissenso”, una galassia presto refluita dentro le bolle di filtraggio dei social, composta sia da persone che hanno criticato con intelligenza le misure adottate dai governi durante la pandemia, sia da soggetti che sembrano aver costruito la loro piccola carriera di influencer a partire dal dolore collettivo. La sfiducia – spesso motivata – verso le istituzioni porta non pochi a un disfattismo carico di astio e di supponenza.

L’invito all’astensionismo militante per quanto riguarda i cinque referendum dell’8/9 giugno è un esempio clamoroso della subalternità culturale e politica di un’area che fatica a stare concretamente nei problemi del tempo e che, avendo subìto ostracismo negli anni feroci del Covid, si chiude in schemi reattivi simmetrici e complementari a quelli escludenti del sistema. Accade così che gli interessi materiali e simbolici che ci uniscono finiscano per essere trascurati e sottovalutati pur di rendersi riconoscibili in chiave identitaria (con forti dosi di vittimismo che indeboliscono le cause del dissenso stesso).

Oggi più che mai si tratta di riannodare il filo e collegare i puntini. Non servono sacche chiuse e settarie di rabbia impolitica, ma una prassi convergente di lotte che tengano insieme tutte le istanze vitali di questo momento storico: no al riarmo, sì ai diritti del lavoro e alla giustizia sociale, sì ai diritti civili, sì a politiche per la salute che scelgano la via del dialogo con i cittadini e dell’informazione corretta (non degli obblighi scriteriati e della repressione), no alle logiche di privatizzazione dei beni comuni, no al suprematismo bianco di un Occidente che guarda dalla finestra mentre continua lo sterminio dei palestinesi in diretta su Tik Tok, no allo stato di polizia.

Ripartiamo dall’essenziale, insieme, senza balcanizzare il fronte di una critica radicale dell’esistente.


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