Il covo delle grandi – la Repubblica
Ho da dire di un’estate nella nostra casa al mare, di sette bambini, di due covi, della volvo impolverata di nonno, di certe piastrelle di ceramica macchiate di inchiostro e di un diario.
Quando la mattina entro in cucina le grandi sono già lì, Anna quest’inverno ha scoperto il caffellatte e adesso lo prepara a Giulia e Sara mentre io prendo il Nesquik. Il tavolo è piccolo, ci ospita a gruppi di quattro, non di più. Io mi metto a capotavola, il tempo di inzuppare il primo biscotto e le loro voci diventano sussurri. Anna versa il rimasuglio di moka nelle tazze, lo trangugiano e io rimango sola. Il via vai sulle sedie è rapido, il secondo turno ospita nonno, poi zia, mamma e zio. L’ultimo è dei piccoli. Chiara, Raffa e Ali. Io li aspetto sdraiata sul divano e mi riprometto di svegliarmi tardi. Dove sono? chiede Chiara. Scuoto la testa. Nell’ultimo periodo le grandi svaniscono e noi piccoli possiamo solo cercarle. Dal vociferare della mattina abbiamo capito che si sono costruite un rifugio e che lo chiamano “il covo”. Allora noi lo cerchiamo e prima o poi lo troveremo. Almeno questo è quello che dice Chiara. Ieri mi ha detto anche di volerne uno solo per noi, ma io un covo non so come si costruisce.
Le grandi le troviamo qualche ora dopo pronte per il mare, con le borse grandi di Hollister e le vecchie settimane enigmistiche di nonna. Camminiamo verso la spiaggia, io ogni tanto punto i piedi, e le dita finiscono fuori dalle ciabatte. Tento di accorciare la distanza che ci separa; ma la mia mano, stretta in quella di nonna Bruna, riceve un lieve strattone e mi tocca riprendere a marciare. Le loro risate ci accompagnano fino alla cabina dove arraffiamo i nostri asciugamani, ammassati l’uno sopra all’altro. Corriamo all’ombrellone attraversando la sabbia bollente, e dopo poco siamo già tutti dispersi. Raffa e Ali vanno a riva, dove c’è un tubo di acqua gelida che sgorga nel mare. Costruire una diga, ogni giorno, tutti i giorni. È un lavoro, il loro. Io e Chiara abbiamo il nostro: setacciare gli ombrelloni, i giochi, il baretto, le fessure tra le cabine. Delle grandi non c’è traccia, quando appaiono noi proviamo a non perderle ma loro sono più brave a questo gioco. Torniamo su come siamo scesi, con il rumore delle infradito che scandisce il ritmo sulla terra. A cena gli occhi delle grandi si cercano. Io osservo le labbra muoversi rapide e rimango allerta, nella speranza di cogliere i loro segreti. Nemmeno più tardi, con le orecchie sulla porta del bagno, riusciamo ad ascoltare quello che si dicono.
Capisco che è lunedì quando mi sveglio e gli adulti sono già tutti usciti, la casa da oggi è solo nostra, dei nonni, e delle tate. Fuori è nuvoloso, secondo nonna tra poco pioverà quindi non ha fretta di farci vestire e fare i compiti. Chiara mi si avvicina, raduna anche Raffa e Ali e ci porta fuori. Ha deciso che è la mattina giusta. Io ho l’incarico di trascinare la casetta di plastica alle spalle del cespuglio. È piccola, ma comunque troppo pesante. Ci mettiamo a spingerla insieme. Poi prendiamo le foglie che troviamo a terra, altre le strappiamo dagli alberi. Riusciamo a coprire il tetto, solo in alcune zone il verde fluo è ancora visibile. Nella casetta non entriamo tutti, quindi ci diamo i turni. Prima io e Chiara, perché siamo le grandi tra i piccoli. Poi Raffa e Ali. Bastano pochi cambi ad annoiarmi, non dico nulla, ma anche Chiara deve pensarla così perché dopo poco ci allontaniamo dal nostro piccolo covo. Sconfitti e con lo stesso obiettivo: trovare il covo delle grandi.
Quando Anna, Giulia e Sara tornano per mangiare hanno le caviglie sporche e i capelli arruffati. Fuori ha iniziato a piovere. Getta forte e noi pranziamo in salone con la luce accesa. Appena finiamo i panini le grandi salgono al piano di sopra, si chiudono in camera e non ci fanno entrare.
Noi piccoli allora ripieghiamo sull’Ipad di nonna, che oggi ci è concesso. Quando finisce il mio turno a Temple Run mi alzo e vado in cucina, dalla portafinestra vedo il mio Geronimo Stilton sull’erba, è zuppo ma esco comunque. Prendo il libro in mano e lo poso sulla sedia più vicina, faccio qualche giro della casa, corro giù per le scale che portano al cancello poi viro per il garage. Inciampo sulle tavolette da surf, accanto, le bici arrugginite e la barchetta di legno, che era stata delle nostre mamme. Mi infilo dietro al tosa erba, e alle casse di Acqua Nepi, raggiungo la volvo di nonno, che tiene sempre aperta, spalanco lo sportello e mi siedo. La testa raggiunge a stento la parte alta del sedile, metto le mani sul volante che ha la pelle nera screpolata, e lo muovo da un lato all’altro. Tocco qualcosa e davanti a me, illuminata dai fari, vedo una porta di legno. Mi stringo tra il muso della macchina e l’aspira foglie, ci arrivo davanti con le braccia coperte di polvere. La porta non si apre completamente, Nonno parcheggia la macchina così vicina da sempre, forse perché la cantina è off-limits, non ci può entrare nessuno. Oltre c’è solo buio e un rumore d’acqua. Le pareti sono ruvide, granulose sotto i polpastrelli, che ci corrono sopra alla ricerca di un interruttore, mi allungo e il piede finisce nel vuoto. Recupero prima di ruzzolare giù e sforzo la vista per vedere un accenno di qualcosa. Mi schiaccio contro la parete e i fari illuminano i primi scalini, per terra una piastrella di ceramica sbeccata con su scritto “Vietato ai piccoli”. Mi faccio coraggio e ne scendo altri due, sento l’acqua sui piedi, mi chino e mentre la mano si bagna afferro un’altra mattonella. “Leo Di Caprio”. La lascio cadere, poi un tonfo e alcuni schizzi mi arrivano sulle cosce. Mi sfilo le infradito e le stringo, i miei capelli sono umidi e ho il collo sudato per il caldo, che si appiccica anche alle gambe nude. Ruscelletti d’acqua scendono lungo le pareti. Sfioro una pila di Vanity Fair, poi vedo i poster sui muri di calcestruzzo: Zac Efron e Brad Pitt. Manca ancora qualche gradino per arrivare in fondo, dove le gocce cadono dal soffitto colpendo qualcosa. Quando l’acqua mi raggiunge i polpacci inizio ad avere freddo. Una linea invisibile mi separa dall’afa di sopra, mi stringo con le braccia il corpo e continuo a scendere. Lo spazio si allarga, trascino i piedi nell’acqua e la puzza di fogna mi entra nelle narici. Mi muovo lenta, cercando di mettere a fuoco il covo. L’ho trovato, dico tra me e me, e la coscia colpisce qualcosa. Riconosco la sedia di plastica del giardino, quella che era sparita insieme ai nani di Biancaneve. Sopra c’è un diario e una penna. Lo sfoglio, ma al buio non riesco a leggere bene. Allungo le braccia verso la luce, è a quadretti viola, bianchi e verdi. “Caro diario, che fatica i ragazzi. Consiglio: non prendetevi una cotta per quelli più grandi. Anna”. Poi ancora: “Capitolo 3: i fratelli”. “Caro Diario, dobbiamo stare sempre più attente, i piccoli rompono e passano tutte le giornate a cercare il covo. Noi siamo più furbe di loro.” Ho da dire di quei gradini percorsi a ritroso, con il diario gocciolante tra le mani; delle foglie bagnate; dei fari della volvo rimasti accesi; degli adulti, che dopo l’acquazzone vietarono alle grandi il covo.
Di un’estate, la prima, dove noi cugini smettemmo di giocare.
Valeria Angella

Nasce a Roma nel 2003, da bambina sogna di avere una fattoria e suonare la chitarra elettrica. Poi realizza di aver paura dei maiali e di preferire quella classica. Mentre frequenta il liceo scientifico colleziona una parete di Dvd e altrettanti libri. Alcuni li porta con sé a Torino, dove nel 2022 inizia la Scuola Holden. Qui impara a dare voce alle sue storie
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