Il concetto di “sport inclusivo” trova nel carcere il suo laboratorio
di Marco Pozzi
“Il tempo è denaro” e forse in nessun luogo come in carcere il detto ha fondamento e dimostrazione.
Divenuto valore di riferimento nella rivoluzione industriale, il tempo è la moneta nel modello di penitenziario del XIX secolo: nella società il tempo è una risorsa, il tempo dà denaro; lo si misura e condivide con gli orologi da tasca, per chi se può permettere, oppure con gli orologi pubblici sui campanili. Nei penitenziari si sviluppa una contabilità del tempo, che assegna anni, mesi e giorni di reclusione in conseguenza del reato compiuto, secondo tabelle oggettive e razionali che translitterano l’alfabeto dell’agire umano nell’alfabeto dei numeri.
Dentro l’ansia di riempire il tempo nella letteratura dell’epoca emerge la parola ‘spleen’. La noia. Per ogni essere umano è esigenza cocente dare un senso al proprio esistere nel mondo, ma soprattutto lo è per chi deve occupare il tempo assegnato dalla sentenza del giudice. Chiunque sia entrato in un carcere, non vendendolo soltanto nei film o serie tv, lo sa.
Per le circa 60.000 persone attualmente recluse lo sport ricopre un ruolo. Nel XVIII rapporto annuale dell’associazione Antigone sulle condizioni detentive, che analizza la situazione italiana nel 2021, si legge che nel 44,8% degli istituti visitati i detenuti avevano un accesso settimanale alla palestra e che il 40,6% degli istituti garantisce l’accesso a un campo sportivo settimanalmente. Le attività più frequenti sono calcio, rugby, palestra con esercizi a corpo libero o pesi, e yoga, che richiede un semplice materassino.
Le attività spesso si appoggiano a volontari di associazioni quali USIP o CSI, che mettono a disposizione competenze ed entusiasmo. Un’esperienza da citare è la polisportiva Atletico Diritti (https://www.atleticodiritti.it), un’associazione nata nel 2014 da Antigone e Progetto Diritti, che propone vari sport a migranti, richiedenti asilo, detenuti, studenti universitari: calcio maschile, cricket, basket, tennistavolo e calcio a 5 femminile. Promuove “i valori della lealtà, dell’impegno e della correttezza”, dice il sito, attraverso lo sport, collante sociale di principi inclusivi. La squadra di calcio a 5 femminile di Atletico Diritti gioca regolarmente nel carcere di Rebibbia di Roma, per allenamenti, amichevoli e partite di campionato (in CSI, giocano sempre in casa). Lo sport è allora un mezzo di coesione tra dentro e fuori, tra carcere e società.
Sul sito del Ministero della Giustizia, alla voce “Sport”, si legge: “La pratica sportiva all’interno degli Istituti penitenziari svolge un significativo ruolo volto a promuovere la valorizzazione della corporeità e l’abbattimento delle tensioni indotte dalla detenzione, favorendo al tempo stesso forme di aggregazione sociale e di positivi modelli relazionali di sostegno ad un futuro percorso di reinserimento”. Dunque l’ordinamento penitenziario inserisce le attività sportive nel trattamento rieducativo, insieme alle attività culturali e altre ricreative: utili entrambi al reinserimento sociale, sono perciò concordate con gli educatori che seguono le persone detenute. Non si tratta solo di sfogare lo stress e contrastare la sedentarietà, esigenza per qualunque persona, ma lo sport si affianca a iniziative culturali come laboratori di cinema e teatro, o musica (chitarra, coro, etc.), o laboratori di lettura e scrittura creativa.
D’altronde, legare lo sport e le attività culturale in un unico flusso ha qualcosa di veritiero, che sta contagiando anche lo sport fuori dal carcere. Basta cercare informazioni sulle Mind Sports Olympiad, edizioni annuali che mescolano prove fisiche, atletiche a tutti gli effetti, insieme a giochi della mente che vanno a stimolare svariate capacità; leggere le specialità del Pentamind e del Decamentathlon dimostra lo spirito della gara.
Divagazione a parte, lo sport può essere uno strumento di reinserimento in società per persone detenute, così come lo è d’inserimento per le persone libere che cercano occasioni di condivisione e partecipazione. E in fondo è anche una possibilità di inserimento in sé stesso, per così dire, di levigare quelle fratture interiori che creano disagio e segregazione. Stress, disagi, apatia, irritabilità, insonnia… sono malesseri oggi così comuni ovunque, e che in reclusione trovano accezioni estreme.
Da attività di passatempo o partecipazione sociale, fino alla passione che fornisce senso all’esistenza, il concetto di “sport inclusivo” trova nel carcere il luogo di un laboratorio in continuo cambiamento.
pozzi_marco@hotmail.com
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