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Il capo delle milizie ucciso, le proteste e il rischio caos libico: perché ora l’Italia rischia


Il capo delle milizie ucciso, le proteste e il rischio caos libico: perché ora l'Italia rischia

Tripoli brucia. Di nuovo. La capitale libica è tornata a essere un campo di battaglia, con scontri armati tra milizie rivali e le forze fedeli al Governo di Unità Nazionale. Le strade si sono trasformate in zone di guerra, mentre civili in fuga e colonne di fumo scandiscono l’ennesimo collasso dell’ordine interno.

La situazione sul campo a Tripoli

Secondo quanto riportato dal quotidiano Al Marsad, le forze governative hanno aperto il fuoco sui manifestanti che chiedevano le dimissioni del premier Abdulhamid Dbeibah, radunatisi vicino alla sua residenza. L’esecuzione di Abdelghani al-Kikli, detto “Ghaniwa”, uno dei più potenti comandanti delle milizie della capitale e leader dell’Apparato di Supporto e Stabilità (SSA), ha innescato una catena di eventi che rischia di far saltare l’equilibrio precario su cui si regge Tripoli. La sua morte ha segnato l’avvio di una nuova fase di scontri tra le milizie rivali, con violenze senza precedenti negli ultimi anni.

Nel cuore del caos, Dbeibah ha convocato una riunione d’emergenza sulla sicurezza nazionale. Ha affidato al ministro degli Interni ad interim, Imad Trabelsi, la guida di un comitato incaricato di monitorare le condizioni nelle carceri e nei centri per migranti. Avrà sette giorni per presentare un rapporto. Ma la mossa appare più come un tentativo di contenimento che una vera risposta alla crisi. Intanto, è stato rimosso Lufti Al-Harari dalla guida dell’intelligence interna: al suo posto, Mustafa Ali Al-Wahishi, veterano dei servizi libici e originario di Zintan. La decisione arriva dopo l’eliminazione mirata di “Ghaniwa”, figura chiave nell’equilibrio delle forze nella capitale.

Cosa è accaduto martedì sera

La situazione è esplosa martedì sera. Per ordine diretto del premier, le forze speciali Rada e l’apparato giudiziario hanno evacuato con la forza diversi obiettivi strategici: il carcere di al Maftouh, la sede dei trasporti e il complesso noto come “al Rahma”. In risposta, la Brigata 444 ha schierato unità d’intelligence su veicoli militari per tentare di bloccare l’avanzata. Si è trattato di un’operazione tattica, che ha innescato lo scontro frontale. Mercoledì mattina, Rada ha mobilitato civili armati nei quartieri orientali della città. Armi leggere sono state distribuite a gruppi irregolari, che hanno eretto barricate e incendiato pneumatici. Le prime raffiche sono esplose a Souq al Jumaa, Tariq al Shatt e ‘Arada. Poi è stato il turno delle armi pesanti. La Brigata 444 ha risposto col fuoco. Al suo fianco, le Brigate 111 e 166 e l’Apparato di sicurezza generale hanno lanciato attacchi coordinati contro postazioni Rada nella zona di Ghiran.

Con il sorgere del sole, Tripoli era già sotto assedio. I combattimenti si sono estesi fino a Ras Hassan e al club Nadi al Ittihad. La 444 ha mantenuto le posizioni, respingendo l’offensiva. Sotto la pressione congiunta, Rada si è ritirata verso l’aeroporto militare di Mitiga, pur conservando presenza attiva in alcuni quartieri. Ha chiesto una tregua umanitaria per evacuare i civili intrappolati. Ma sul terreno sono riemerse anche milizie storiche: ex unità del defunto Ghaniwa, tra cui gruppi armati guidati da Shalfouh, Osama Tellish e Al Madghouta, hanno cercato di riconquistare territori chiave ad Abu Salim e Riqata. Da Zawiya si sono mossi i gruppi di Mohamed Bahroun “il Topo”, Sifaw, Lhab e Ben Rjab. Obiettivo: bilanciare la superiorità tattica delle forze filo-governative. Il rischio: l’apertura di un nuovo fronte.

Nel frattempo, le forze di Misurata restano in silenziosa attesa. Nessuna mossa. Nessun alleato. Solo cautela per il timore di un’offensiva da parte dell’Esercito Nazionale Libico (LNA) di Khalifa Haftar e dissenso verso la linea accentratrice di Dbeibah. Sul fronte orientale, intanto, le truppe del LNA si muovono. Secondo l’agenzia russa Ria Novosti, colonne militari sono partite da Bengasi verso Sirte. Il generale Haftar osserva e attende.
La comunità internazionale anche.

L’allarme del Copasir

Ma la crisi libica non si ferma ai suoi confini. È un detonatore strategico anche per l’Italia. I rischi per Roma non sono solo umanitari. Il vuoto di potere a Tripoli, le fratture tra milizie e l’avanzata di Haftar potrebbero compromettere gli accordi su gas e migranti, su cui Roma ha investito negli ultimi anni. Senza un’autorità centrale affidabile, anche il controllo delle coste libiche — nodo chiave per i flussi migratori nel Mediterraneo centrale — diventa impossibile.

Secondo l’ultima relazione del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir), approvata lo scorso 5 febbraio, in Libia si trovano attualmente circa 700.000 migranti irregolari. Si tratta di uomini e donne spesso bloccati nei centri di detenzione informali delle milizie, o nascosti nei compound nei pressi della costa, in attesa di partire per l’Europa. Molti di loro, riferisce il Copasir, pagano cifre tra i 2.000 e i 5.000 euro per un posto su un’imbarcazione diretta verso l’Italia, denaro guadagnato lavorando in condizioni estreme nei centri urbani libici. In Tripolitania, dove si concentra il grosso delle partenze, il traffico di esseri umani è gestito da una galassia di milizie, con legami documentati con organizzazioni criminali e terroristiche. Lungo le rotte terrestri, il passaggio è spesso soggetto a “tasse” imposte da gruppi jihadisti.

L’Italia è il primo approdo. Ed è esposta, come mai prima, a un’ondata migratoria senza controllo, proprio mentre il governo punta tutto sul “Piano Mattei” e sulla stabilizzazione del Mediterraneo. Il rischio concreto, avverte la relazione del Copasir, è che ogni nuova crisi libica riattivi flussi incontrollabili verso le coste italiane, alimentando il traffico di esseri umani e mettendo sotto pressione il sistema di accoglienza e sicurezza nazionale. In questo scenario, l’Italia si ritrova vulnerabile su due fronti: la sicurezza dei propri cittadini sul territorio libico e l’impatto diretto sul fronte migratorio.

Gli italiani bloccati a Tripoli

Intanto, nuove raffiche sporadiche di arma da fuoco sono state udite oggi nei pressi delle rappresentanze diplomatiche internazionali a Tripoli, inclusa l’ambasciata d’Italia. Lo riportano fonti locali ad Agenzia Nova, precisando che si tratta di episodi isolati, di entità inferiore rispetto agli scontri violenti che nei giorni scorsi hanno insanguinato la capitale libica. Nonostante l’annuncio ufficiale di un cessate il fuoco diramato dal ministero della Difesa del Governo di Unità Nazionale, la situazione in città resta estremamente volatile. La tregua appare fragile, mentre sul terreno persistono tensione armata e instabilità diffusa.

Nel frattempo, è iniziata l’evacuazione dei cittadini stranieri. Un centinaio di italiani – in gran parte imprenditori e membri di una delegazione economica giunta in Libia per partecipare alla fiera internazionale dell’edilizia Libya Build – ha lasciato Tripoli nelle ultime ore. Con loro anche una ventina di cittadini spagnoli, rimasti bloccati nella capitale a seguito dei recenti combattimenti tra milizie rivali. Tutti saranno rimpatriati a bordo di un volo civile organizzato dall’Italia, che trasporterà complessivamente circa 130 persone. L’operazione rappresenta una risposta di emergenza a una crisi che, pur temporaneamente attenuata, rimane altamente imprevedibile. Il ministro italiano Guido Crosetto ha confermato che, se necessario, l’Aeronautica italiana sarà pronta a intervenire.

Ma nessuno, a Tripoli, crede davvero alla pace. Il fragile cessate il fuoco appare come una pausa tattica prima della prossima deflagrazione.

Intanto, Roma osserva con crescente preoccupazione l’avanzata silenziosa dell’Esercito di Haftar verso Sirte. Un’eventuale offensiva sul fronte occidentale potrebbe riaprire un conflitto su larga scala, con implicazioni devastanti per la sicurezza del Mediterraneo.


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