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Idrosadenite suppurativa, la storia di Giusi che lotta contro il dolore invisibile: «Sopra i vestiti sembriamo persone normali. Nessuno immagina che sotto quegli abiti ci sono ferite aperte, garze, zone martoriate»

Un dolore insopportabile che diventa invalidante. Giusi Pintori soffre di idrosadenite suppurativa, una patologia poco conosciuta ma che colpisce almeno l’1% della popolazione, in particolare le donne (una percentuale che, in realtà, è probabilmente più alta, poiché spesso la malattia è sottodiagnosticata o non diagnosticata).

Si tratta di una malattia infiammatoria cronica della pelle causata da alterazioni del sistema immunitario, e si manifesta generalmente dopo la pubertà con noduli sottocutanei, dolorosi e infiammati.

Il lungo percorso verso la diagnosi

«La mia storia con questa patologia è iniziata presto, quando avevo solo 12 anni, durante le scuole medie», ci spiega Giusi Pintori, che oggi è anche la direttrice di Passion People APS, l’Associazione nazionale delle persone affette da idrosadenite suppurativa. «All’inizio, gli ascessi si formavano soprattutto nelle pieghe del corpo, come inguine e ascelle, ma col tempo si sono estesi ad altre zone: cosce, gambe, area mammaria, glutei, perianale e addome. Ricordo quei primi episodi senza capirne la natura, ma è stato intorno ai 18-19 anni che la malattia ha raggiunto i suoi momenti più difficili, diventando dolorosa, traumatica e profondamente invalidante. Ricordo in particolare la fine dell’anno scolastico, poco prima dell’esame di maturità: l’idrosadenite è stata particolarmente aggressiva e devastante per il mio corpo e per il mio equilibrio emotivo».

Le comorbilità e il peso della malattia

Ma non era solo l’idrosadenite a colpirla. «A essa si sono aggiunte numerose comorbilità: ascessi dentari ricorrenti, granulomi, intensi dolori osteoarticolari, mal di testa quotidiani, disturbi gastrointestinali scatenati da alcuni alimenti, problemi di umore e insonnia».

Prima di ricevere la diagnosi, il suo percorso è stato lungo e durissimo. «Non sapevo nulla dell’idrosadenite suppurativa e dovevo fidarmi ciecamente di ciò che la medicina mi proponeva. Ho subito numerosi drenaggi senza anestesia, sola con me stessa. Nessuno sembrava capire davvero cosa stessi affrontando, né offrirmi aiuto o supporto».

Lo stigma e l’isolamento

E quando è arrivata la diagnosi, «la prima reazione è stata di puro terrore. Mi hanno dato solo il nome della malattia e lasciata da sola in una stanza, davanti a un computer. Cercando informazioni, trovai solo casi estremi, persino fatali, legati all’idrosadenite».

Giusi Pintori ha tre figli, che allora erano piccoli. «Ero giovane e piena di voglia di vivere. Temetti il peggio: di non arrivare a 40 anni, di non vedere crescere i miei bambini, di perdere non solo la salute fisica ma anche quella mentale. Mi sentivo sopraffatta dalla difficoltà». Ma proprio i suoi figli sono stati la più grande forza: «Nei momenti peggiori, il loro amore e il loro bisogno di me mi hanno dato la spinta per reagire».

Ci sono anche stati episodi particolarmente dolorosi legati allo stigma. «Ricordo una volta in cui confidai a una pseudo amica che avevo due grandi ascessi nell’inguine. La sua risposta fu ripetere in continuazione: “Che schifo, che schifo, che schifo!”. È stato umiliante. L’ignoranza fa percepire l’idrosadenite come qualcosa di contagioso o, peggio, legato a cattive abitudini sessuali. Questo rende difficile condividere la propria esperienza e trovare comprensione. Anche sul lavoro l’impatto è enorme: spiegare assenze frequenti o limitazioni fisiche senza dover rivelare dettagli intimi è complicato».

La solidarietà tra i pazienti

Quando Giusi ha fondato anche la prima associazione di pazienti, però, per la prima volta non si è sentita più sola. «Ho trovato negli altri pazienti migliaia di fratelli e sorelle, persone che mi capivano e che io capivo. Alcuni erano più stanchi, più scoraggiati di me, e questo ha generato in me un potente senso di solidarietà. Da quel momento, ho deciso che avrei dedicato ogni mia energia a fare in modo che nessuno vivesse l’isolamento e il terrore che avevo vissuto io. Questo sentimento non mi ha mai abbandonato e ora fa parte di chi sono».

Adattarsi alla malattia

Anche quello per «adattarsi» alla malattia è stato un percorso lungo e accidentato. «Ho sperimentato moltissimo per capire come gestire ogni aspetto della mia vita: ho imparato cosa usare per lavarmi, quali alimenti evitare, come vestirmi per non irritare la pelle, quali movimenti fossero più adatti al mio corpo. Anche la mia vita domestica, professionale e sociale ha richiesto un’organizzazione completamente nuova. Non è stato semplice, ma passo dopo passo ho trovato un equilibrio, scoprendo cosa funzionasse davvero per me».

Una battaglia quotidiana

E anche oggi, le sfide sono tante, ogni giorno. «Le limitazioni nei movimenti, il dolore pungente e infuocato, la stanchezza cronica: sono presenze costanti nella mia vita. Anche attività apparentemente semplici diventano difficili. Mi impongo di camminare, anche se a volte è un atto di pura forza di volontà. Amo la natura, il mare, le rocce, le montagne della mia isola, e cerco di esplorarla a piedi quando posso, ma spesso mi è impossibile. Trascorrere ore al computer è complicato, ma mi organizzo: se ricevo una telefonata, mi alzo, cammino, mi sdraio sul divano, alterno continuamente le posizioni. Uso sedute morbide, indosso biancheria senza cuciture e abiti che non sfregano la pelle».


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