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I rischi della Casa Bianca. Legittimare ancora lo Zar e concedergli ogni cosa

I punti di partenza dell’annunciato incontro di Ferragosto tra Trump e Putin sembrano fatti apposta per smentire gli inguaribili ottimisti (o meglio, i soliti distratti, di rado in buona fede) che avevano voluto credere in un cambio di atteggiamento del presidente Usa verso quello russo. Non è affatto così. Putin ottiene da Trump (ripetiamo: siamo alle condizioni di partenza) solo concessioni vantaggiose: sarà accolto con rispetto negli Stati Uniti, Zelensky e i leader Ue saranno tenuti fuori dalla porta a migliaia di chilometri, la cessione di territori ucraini all’aggressore russo sarà sul tavolo.

Questo significa per Putin un successo diplomatico enorme: in tutto l’Occidente (e oltre) il dittatore del Cremlino viene trattato come un infrequentabile infrangitore delle regole elementari della convivenza internazionale, ricercato dalla Corte penale dell’Aia per sequestro di migliaia di minorenni ucraini, ma Trump intende accoglierlo come un rispettabile capo di Stato; la pretesa incredibile del Cremlino di discutere del destino di un Paese libero, da lui stesso aggredito, in assenza dei suoi rappresentanti e di quelli dei suoi alleati è stata accolta; premiare l’aggressione con la legittimazione di ciò che ha arraffato con la forza viene presentato come un passo importante verso la pace.

Ma di quale pace stiamo parlando? Steve Witkoff, l’inviato di Trump incaricato di mettere le basi per una intesa coi russi, è un personaggio penosamente inadeguato: del tutto privo di esperienza diplomatica – costruisce e vende immobili a New York – è solito discutere da solo con Putin (che invece è sempre accompagnato e assistito da consiglieri specialisti) di questioni delicatissime che conosce sommariamente. Consapevole che la priorità di Trump è di conseguire in Ucraina un cessate il fuoco quale che sia, onde rafforzare la sua narcisistica (e irrealistica) candidatura al Nobel per la Pace, Witkoff riporta regolarmente al suo capo, di cui ben conosce le inclinazioni, il punto di vista russo come se fosse una verità oggettiva. In particolare, la pretesa di Putin di escludere dalla discussione Zelensky e i leader europei incontra presso Witkoff, così come presso il vicepresidente Vance, totale condivisione.

Ma l’inviato di Trump è anche peggio di questo. Tragicamente ignaro delle vicende politiche e storiche che sarebbe suo dovere conoscere, fraintende non solo la lettera, ma soprattutto il senso delle comunicazioni che riceve dai russi. Così, ancora lo scorso mercoledì a Mosca, Witkoff ha creduto (evidentemente volentieri) di capire che Putin fosse disposto a rinunciare alla sua pretesa di controllo totale di cinque regioni ucraine, solo in parte occupate, in cambio di un cessate il fuoco. Niente di tutto questo. Non solo: avrebbe confuso la pretesa russa di un “ritiro pacifico” degli ucraini da Kherson e Zaporizhzhia con un’inesistente offerta di ritiro russo da quelle stesse regioni.

Putin può solo fregarsi le mani di avere a che fare con simili negoziatori. Da qui a venerdì dovrà solo ripassare un po’ del manuale del suo vecchio e caro Kgb al capitolo “come gestire una controparte narcisista”, materia di cui è stato sempre un maestro. Cercherà di far sentire Trump il grande statista che non è, a un passo dal conseguimento di un risultato che gli assicurerà gloria e considerazione eterne… oltre che tanti begli affari in Russia, naturalmente.

Gli farà però intendere che se vuole una pace subito, dovrà essere alle sue condizioni, salvo gettare sul tavolo qualche briciola per confondere le idee ai benpensanti occidentali. E lo convincerà, una volta di più, che Zelensky è solo un piantagrane da togliere di mezzo, l’Ucraina un irrilevante accidente della Storia che loro due possono riscrivere insieme.


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