Lazio

i residenti di Trastevere chiedono lo stop alle tende

Sul Lungotevere, a due passi da ponte Sisto, Roma ha di nuovo aperto gli occhi su un paesaggio che credeva d’aver archiviato: una lunga teoria di teloni multicolore, picchetti di fortuna, materassi sdruciti che corrono per decine di metri sulla banchina.

All’alba, la bruma che sale dal fiume avvolge la tendopoli come un sipario; poi il sole si alza e ne svela la trama di precarietà: cucine improvvisate, coperte stese ad asciugare, un braciere acceso con legna umida che fuma denso e acre.

Siamo nel cuore della Capitale‑cartolina, dove i turisti arrivano per fotografare il cupolone che s’illumia al tramonto; eppure, sotto quel belvedere, si consuma un’altra città, fatta di bivacchi, traffici opachi e vite alla deriva.

Ombre di un passato mai davvero risolto

I residenti lo ripetono sottovoce: «Qui il Tevere porta con sé cattivi ricordi». Era il 2016 quando un giovane studente statunitense venne trovato senza vita nelle acque scure poco più a valle; quattro anni dopo, un senzatetto fu accoltellato tra le baracche.

In entrambi i casi spuntò il nome, ormai leggendario e sinistro, di D.P., il “fantasma del fiume”, un uomo capace di scomparire e ricomparire tra argini, anfratti e storie di droga. Da allora il Lungotevere vive in una memoria popolata di paure: bastano pochi teloni per riaccenderla.

Il coro degli abitanti

Dal quartiere Trastevere alle vie limitrofe, le chat condominiali ribollono: «Di notte non c’è pace», «gli schiamazzi sotto le finestre», «il traffico di bottiglie e pacchetti che passano di mano in mano». Chi ha vista fiume conta ormai i minuti che separano un pattugliamento dall’altro.

«Servono controlli continui, non blitz spot», protestano i residenti. E intanto si domandano dove sia finito il progetto di riqualificazione promesso dopo l’ultimo sgombero, appena un anno fa.

Il balletto degli sgomberi

La storia, infatti, si ripete come una filastrocca: scatta la segnalazione sui social, partono i blitz di Polizia locale e Municipale, le tende vengono smontate, i rifiuti rimossi, i varchi chiusi.

Poi, trenta, quaranta, sessanta giorni e i teloni riappaiono come funghi. Perché la città–fiume ha un metabolismo lento e ostinato: chi vive di espedienti sa che qui si trova riparo; chi spaccia sa che, tra gli archi dei muraglioni, gli affari attecchiscono; chi non ha nulla spera almeno in un giaciglio di cartone.

Il nodo irrisolto: assistenza o repressione?

Al Campidoglio lo sanno bene: una ruspa non cancella il disagio sociale, ma un presidio fisso costa uomini e fondi.

Dal lato opposto, la Prefettura mette sul tavolo «un protocollo ordine pubblico» con Polizia di Stato, Guardia di Finanza e Reparto fluviale: pattugliamenti h24, fari notturni, telecamere termiche lungo l’argine.

Le due strategie restano parallele, come i binari del tram che corre su lungotevere dei Vallati: non si incontrano mai.

Un fiume da restitui­re

Eppure, la città che guarda dall’alto, non vuole arrendersi. Il nuovo Piano per il Tevere — parcheggi interrati, giardini d’affaccio, ciclabile continua fino a Castel Giubileo — promette di trasformare quelle banchine in un boulevard d’acqua.

Ma finché la rinascita non diventerà cantiere, la scena quotidiana la scriveranno le tende. «Il Tevere è il nostro mare», dicono i romani.

Oggi però assomiglia a un porto senza dogane, dove tutto entra e nulla viene registrato: storie di chi dorme al gelo, fantasmi di vecchi delitti, paure che risalgono a galla ogni volta che il fiume refluisce.

Finché qualcuno — istituzioni, associazioni, cittadinanza — non riuscirà a cucire insieme sicurezza e solidarietà, la corrente continuerà a portar via gli stessi detriti. E la capitale‑cartolina resterà appesa, fragile, a un filo di tende colorate che il primo vento forte può strappare di nuovo.

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